L’isolamento di Israele è anche il nostro
Il destino di Israele è il destino dell’Occidente. Si può pensare il peggio delle azioni belliche del governo Netanyahu ma non si può ignorare che l’isolamento internazionale di Israele è anche il nostro. Le democrazie contano sempre di meno nella globalizzazione dominata dai regimi autoritari. E in più sono corrose, al loro interno, da una crescente polarizzazione, lacerate da schieramenti che non si riconoscono a vicenda. Troppe le vittime innocenti nella striscia di Gaza. Inaccettabile. Ampia e comprensibile la protesta, soprattutto giovanile, ma che dimentica ciò che è accaduto con il pogrom del 7 ottobre o con il missile degli Hezbollah finito nel campo giochi di Majdal. Quasi quelle vite contassero poco o nulla. L’amara realtà - ed è un sanguinoso paradosso - è che i terroristi di Hamas stanno vincendo la guerra della comunicazione. E ai tanti che confondono le responsabilità di un governo con il diritto all’esistenza dello stato ebraico, sfugge una semplice verità. Nella loro generosa solidarietà al popolo palestinese sembrano ignorare del tutto il baratro nel quale - sotto quella bandiera sventolata in tante manifestazioni - sono finiti i diritti umani e tutti i valori delle democrazie occidentali, a cominciare dalla libertà del dissenso. Il sostegno di Teheran ad Hezbollah e ad Hamas ha finito per essere una sorta di salvacondotto del terrore presso l’opinione pubblica dei Paesi liberi. Nessuno protesta più per la repressione in Iran. Lo slogan «donna, vita, libertà» è scomparso. Vi sarebbe, del resto, un’inestricabile contraddizione nello sfilare a favore di Hamas, finanziata da Teheran, e nel difendere i diritti delle donne iraniane.
Netanyahu estende la guerra anche per sopravvivere politicamente e non perdere l’appoggio dei movimenti più estremisti e religiosi che hanno cambiato pelle al sionismo. L’uscita di scena di Biden sembra avergli liberato le mani. La moral suasion americana si è indebolita al punto da mettere in dubbio la tradizionale alleanza con gli Stati Uniti che è vitale per entrambe, non solo per Israele. Uno stato ebraico abbandonato a se stesso vorrebbe dire la resa al terrorismo internazionale, la sconfitta delle democrazie, un vergognoso ribaltamento delle ragioni della Storia che già alimenta un rigurgito diffuso di antisemitismo. Ma nello stesso tempo, pur con toni diversi, sia i democratici sia i repubblicani che si contendono la Casa Bianca il prossimo 5 novembre, sanno di dover frenare Netanyahu che molti non avrebbero voluto ospitare al Congresso e non lo hanno voluto ascoltare. Non possono condividerne, in campagna elettorale, ogni sua mossa. Non solo per ragioni umanitarie, ma anche più prosaicamente politiche. Le minoranze etniche americane vedono riflesse nella lotta per l’indipendenza palestinese, la loro lunga e diversa storia di emarginazione e di difficile integrazione. È, se volete, un altro aspetto inquietante del successo di comunicazione globale di Hamas. Biden, seppur indebolito, è impegnato a terminare la sua presidenza con almeno una tregua. Donald Trump, così risoluto in passato nel sostenere Gerusalemme come capitale di Israele, è apparso inaspettatamente prudente. Se dovesse ereditare, una volta rieletto, il dossier mediorientale su una scala più vasta non saprebbe come gestirlo. Più semplice da risolvere il conflitto ucraino, basta interrompere gli aiuti militari. Quello che Trump non potrà mai fare con Israele. Il diritto a difendersi di Israele è sacrosanto ma dovrà pure avere un limite se esiste ancora uno straccio di diritto internazionale. Ed è questo il dilemma che tormenta i suoi alleati, timorosi di perdere consensi interni e di dover affrontare inediti scenari di tensione esterni.