Medio Oriente: un conflitto con effetti a vasto raggio
Sono passati oltre dieci mesi da quel terribile 7 ottobre, giorno nel quale i terroristi di Hamas hanno portato a termine il loro più spietato attacco nei confronti del popolo israeliano. Non dev’essere facile per la dirigenza dello Stato ebraico trattare un cessate il fuoco, sia pure attraverso la mediazione di altri Stati, con i responsabili di un bagno di sangue studiato nei dettagli per infliggere al “nemico” il maggior numero possibile di perdite umane con pratiche di guerra da Medioevo.
Va tuttavia notato che il protrarsi del conflitto in atto per “sradicare Hamas da Gaza”, come ha a più riprese affermato il premier israeliano Netanyahu, sta producendo pesanti effetti collaterali non solo sui civili palestinesi costretti da tempo a vivere in condizioni sanitarie e alimentari disastrose, ma anche sulle decine di ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, di cui non è dato sapere quanti siano ancora in vita.
Le recenti uccisioni mirate, da parte dello Stato ebraico, di alcuni dirigenti di punta di Hamas e di Hezbollah sono avvenute mentre Stati Uniti, Egitto e Qatar tentavano di mettere a punto un piano per una tregua a Gaza. Il fatto poi che il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, sia stato ucciso a Teheran non ha fatto che aumentare le tensioni tra Israele e Iran. Tanto è vero che il Pentagono ritiene che la minaccia di un attacco contro lo Stato ebraico da parte dell’Iran e dei suoi alleati esista ancora.
Come interpretare allora questo modo di agire della dirigenza israeliana? Vi è chi ipotizza che di fronte al tergiversare di Hamas nei colloqui in atto da settimane per una tregua a Gaza e per la liberazione degli ostaggi israeliani, Tel Aviv abbia voluto aumentare la pressione sulla dirigenza del movimento estremista. Il proseguire degli attacchi contro Israele da più fronti sembra però suggerire che tale ipotesi sia un tantino azzardata.
Sembra invece molto probabile che più a lungo si protrarranno i combattimenti a Gaza, con l’inevitabile perdita di vite tra i civili, più crescerà la percentuale di palestinesi che appoggeranno l’operato di Hamas, e allo stesso tempo aumenterà il rischio di un allargamento del conflitto nella regione. Ieri Il Cairo, mediatore chiave per una tregua a Gaza, ha fatto sapere di opporsi alla presenza di militari israeliani lungo il confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza.
Dunque il quadro generale nella regione si fa sempre più inquietante e l’evolversi della situazione rischia di avere delle ripercussioni anche negli USA, dove la candidata dei democratici alle presidenziali del 5 novembre, Kamala Harris, è contestata da alcune frange del partito per non essersi distanziata dalle politiche del presidente Joe Biden in Medio Oriente, a loro dire troppo filoisraeliane.
Così alla fine il conflitto a Gaza potrebbe indirettamente favorire due vecchi amici, l’ex presidente statunitense Trump e l’attuale premier dello Stato ebraico Netanyahu. Il candidato repubblicano alla Casa Bianca potrebbe infatti beneficiare del calo dei consensi nei confronti della Harris dovuto al perdurare del sanguinoso conflitto in Medio Oriente, mentre il premier israeliano che sembra deciso a proseguire una guerra ad oltranza contro gli estremisti islamici che minacciano lo Stato ebraico trarrebbe grossi vantaggi da una vittoria del tycoon nelle presidenziali di novembre.
Ieri intanto l’ONU è stata costretta a sospendere le operazioni umanitarie a Gaza a causa di un nuovo ordine di evacuazione israeliano su Deir al-Balah, nel centro del territorio palestinese. La guerra dunque prosegue e per il prossimo futuro l’unica certezza, purtroppo, è la sofferenza dei civili palestinesi e anche quella dei civili israeliani che vivono nelle zone di confine prese di mira dagli estremisti islamici.