L'editoriale

Per Damasco la stabilità è tutta da costruire

Quanto accaduto in Iraq dopo l’eliminazione del regime di Saddam Hussein dovrebbe indurci a valutare con prudenza quanto sta accadendo oggi in Siria
Osvaldo Migotto
09.12.2024 06:00

Il 9 aprile del 2003 in piazza del Paradiso a Baghdad veniva abbattuta con l’aiuto di un carro armato USA la statua del dittatore iracheno Saddam Hussein. Il monumento del tiranno iracheno era uno degli emblemi della sanguinaria dittatura e il suo abbattimento era stato accompagnato dalle grida di gioia della folla. Ieri anche la capitale siriana ha assistito alla caduta di un regime dittatoriale, quello degli Assad, che per oltre mezzo secolo si è retto sul terrore e sulla violenza ai danni degli oppositori.

Più che comprensibili dunque le scene di giubilo a Damasco per la cacciata di Bashar al-Assad e per l’abbattimento della statua del padre Hafez al-Assad, che prima del figlio aveva governato con il pugno di ferro il Paese per quasi 30 anni. Come a Baghdad nel 2003, dunque, anche nella capitale siriana la fine della dittatura è stata percepita da buona parte della popolazione come l’uscita da un incubo che lascia dietro di sé una spaventosa scia di sangue.

Tuttavia quanto accaduto in Iraq dopo l’eliminazione del regime di Saddam Hussein dovrebbe indurci a valutare con prudenza quanto sta accadendo oggi in Siria. Si ricorderà come il vuoto di potere creatosi a Baghdad dopo la caduta del regime iracheno sia poi stato uno delle cause scatenanti di quell’estremismo islamico che tanti morti e problemi ha causato in Medio Oriente, ma anche in altre aree del mondo, Occidente compreso.

Le dinamiche della caduta della dittatura degli Assad sono diverse da quelle che hanno caratterizzato il crollo del regime di Saddam Hussein, ma anche nell’attuale situazione venutasi a creare a Damasco i rischi di un’instabilità politica sono tutt’altro che remoti. I ribelli islamisti di Hayat Tahrir al Sham (HTS), guidati da Abu Mohammed al-Jolani e sostenuti da Ankara, hanno portato a termine la loro rapidissima avanzata verso la capitale anche grazie a un’ondata insurrezionale che ha coinvolto altri gruppi armati in lotta con il regime.

Alla fine la popolazione di Damasco ieri ha festeggiato in un apparente stato di unità la storica cacciata del sanguinario dittatore. Gli esponenti dell’HTS che per primi hanno preso la parola davanti alle telecamere per annunciare la caduta del regime, si sono presentati in abiti civili, invocando il rispetto degli edifici pubblici. I nuovi padroni di Damasco hanno avuto parole concilianti, sia nei confronti delle diverse etnie e gruppi religiosi presenti nel Paese, sia nei confronti di Paesi stranieri. A cominciare dalla Russia che ha sostenuto fino all’ultimo Bashar al-Assad.

Nell’agosto del 2021 parole concilianti erano state pronunciate anche dai talebani che avevano conquistato Kabul per la seconda volta dopo la cacciata degli americani. Con il passare dei mesi però i veri obiettivi che gli integralisti islamici giunti al potere intendevano perseguire sono apparsi spaventosi: una rigorosa applicazione delle norme islamiche più retrograde e la cancellazione di ogni voce critica nei confronti del regime.

Un tale rischio è presente anche in Siria. Inoltre non va dimenticato che dietro le varie fazioni che hanno preso parte a una guerra civile durata 13 anni e che ha causato oltre 500mila morti e 6 milioni di profughi vi sono delle potenze straniere decise a far sentire il loro peso nella regione. A cominciare dall’Iran che per anni ha sostenuto l’alleato siriano e i miliziani Hezbollah in Libano, ma che ora è in grosse difficoltà per le forte tensioni createsi con Israele.

Canta vittoria Erdogan che spera di estendere la sua influenza in Siria, mentre la Russia nonostante la sconfitta dello storico alleato siriano spera di poter mantenere le sue basi militari in loco cercando un’intesa con la nuova dirigenza a Damasco, ma la strada verso un esecutivo stabile appare tutta in salita.