L'editoriale

Quando i giganti del Web sono allergici alle regole di mercato

Nel giro di un mese Google è stata condannata da due corti, una statunitense e l'altra dell'Unione europea, per abuso di posizione dominante
Generoso Chiaradonna
14.09.2024 06:00

Lo scorso cinque agosto, con una sentenza storica, Amit Mehta, un giudice di una Corte federale degli Stati Uniti ha stabilito che Google, il motore di ricerca web più noto al mondo, ha abusato della sua posizione dominante nel settore della ricerca online per impedire ad altre aziende di sviluppare tecnologie alternative. To Google o googlare in italiano, sono neologismi entrati nel linguaggio comune e che indicano un’azione che probabilmente compiamo più volte al giorno. Quante volte, quando si è indecisi su un nome di un personaggio più o meno noto o sulla data di un evento passato, semplicemente lo ‘googliamo’? È un gesto quasi naturale. Google o meglio Alphabet, il nome della società a cui appartiene il motore di ricerca, quasi certamente appellerà la sentenza e toccherà alla Corte Suprema degli Stati Uniti pronunciarsi su un settore – quello di Internet – nato come una prateria libera e accessibile a tutti e diventato nel frattempo un luogo dominato e sfruttato economicamente da pochissimi attori a livello globale. È quasi impossibile, per un imprenditore o un’azienda che non si appoggia alle famose GAFAM - le magnifiche cinque società custodi della Rete - proporre un qualsiasi servizio sul web ignorando i dazi e le frontiere impalpabili, ma ferree poste da Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft. E come per i pionieri alla conquista del Vecchio West, anche per Internet non sono mancati i colpi bassi per accaparrarsi e mantenere con ogni mezzo la quota di mercato conquistata. Per questo, la sentenza di Amit Mehta, se confermata, è storica: Google dovrebbe ridimensionare in modo radicale i meccanismi all’origine del successo del suo motore di ricerca. Ciò impatterebbe su tutto il settore. Il processo è iniziato un anno fa, nel settembre dello scorso anno. È però da più di tre anni che il Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti (DoJ) indaga su pratiche ritenute illegali. In particolare, il DoJ sostiene che Google ha abusato del monopolio creatosi nella ricerca online per danneggiare la concorrenza e impedire le innovazioni a beneficio dei consumatori. In pratica Google avrebbe ottenuto questo monopolio infrangendo la legge, e poi l’avrebbe mantenuto con metodi illegali. In pratica Google è dipinta come un «bullo tecnologico» che ha sistematicamente ostacolato la concorrenza per proteggere un motore di ricerca – sono le parole del giudice Amit Mehta nel dispositivo della sentenza da 277 pagine – che garantisce alla casa madre Alphabet enormi entrate legate alle inserzioni pubblicitarie: circa 240 miliardi di dollari l’anno. E quando si parla di quota di mercato, bisogna ricordare che Google ha a livello mondiale – tra dispositivi fissi e mobili - oltre il 90% del mercato delle ricerche online (fonte gs.statcounter.com). Quota che sale a oltre il 94% se si tiene conto dei soli smartphone. Al secondo posto e primo concorrente di Google troviamo Bing della Microsoft con poco più del 3%. Seguono altri con percentuali ancora più piccole. Insomma, non c’è gara.

Secondo l’accusa - confermata dalla sentenza - grazie al monopolio, chiamiamolo naturale, Google ha potuto chiedere tariffe più alte agli inserzionisti. Alphabet ha investito miliardi di dollari ogni anno (26 miliardi nel 2021) in soluzioni tecniche, tra algoritmi e gli intramontabili vecchi accordi riservati, per mantenere la quota di mercato inalterata e garantirsi un flusso di ricavi costanti.

Non è la prima vertenza legale per Google. Lunedì di questa settimana è iniziato un altro processo ad Alexandria, Virginia sempre per violazioni delle regole di mercato. Secondo l’accusa, l’azienda californiana avrebbe ostacolato la concorrenza nella tecnologia pubblicitaria online. Anche in questo caso i procuratori federali sostengono che Google esercita «un controllo significativo sul quadro tecnologico che supporta la diffusione di notizie e informazioni sui siti web, elaborando oltre 150 mila vendite di pubblicità online ogni secondo».

Anche in Europa si prova da tempo a fare valere le regole di mercato. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha confermato la condanna a Google e Alphabet a una multa da 2,4 miliardi di euro (2,3 miliardi di franchi) inflitta dalla Commissione europea nel 2017. Le accuse erano le solite: abuso di posizione dominante nello Spazio economico europeo nel comparto delle ricerche online.

L’integrità del mercato digitale continentale riguarda anche la Svizzera e in particolare la stampa che è indebolita anche dalla concorrenza sleale dei giganti del web. Una ricerca di Schweizer Medien, l’associazione degli editori svizzerotedeschi, di marzo 2023 ha dimostrato che il fatturato pubblicitario dei motori di ricerca, in pratica uno solo, nella Confederazione è pari a 1,1 miliardi di franchi l’anno. Oltre 154 milioni di franchi sono realizzati grazie alle notizie pubblicate dai siti dei giornali e usate gratis dai motori di ricerca. È vero che il processo di digitalizzazione è irreversibile. Senza però un intervento che riporti i giganti del web nel mondo reale, è un po’ come insaponare la corda di chi vuole impiccarci.