L'editoriale

Se Trump passa dalla spada al fioretto

I primi cento giorni della «Rivoluzione MAGA» sono scaduti e tutti i media e i commentatori si sono affrettati a fare un bilancio, non di rado piuttosto critico, dell’operato del presidente americano al suo secondo mandato
Paride Pelli
30.04.2025 06:00

I primi cento giorni della «Rivoluzione MAGA» sono scaduti e tutti i media e i commentatori si sono affrettati a fare un bilancio, non di rado piuttosto critico, dell’operato del presidente Trump al suo secondo mandato. Alcuni sondaggi hanno rilevato che il tasso di approvazione verso il tycoon è sceso al punto più basso della storia per i primi tre mesi di una presidenza, un periodo che invece è tradizionalmente una «luna di miele» tra l’eletto e suoi elettori. Ma più che ai sondaggi - che possono venire ribaltati in poco tempo da qualche spettacolare evento storico oppure risultare contraddittori a seconda della testata che li conduce - occorre guardare al sentimento generale dentro gli Stati Uniti e nel resto del mondo. Inutile negarlo: un uragano c’è stato ed è ancora in corso. Soprattutto, com’era prevedibile, sui media, che sono stati letteralmente invasi da «The Donald» e dai protagonisti della sua Amministrazione forse in misura ancora maggiore che durante l’infuocata campagna elettorale dell’anno scorso. Da questo punto di vista, la strategia di Trump è palese e si appoggia su una lunga e raffinata esperienza: occupare più spazio mediatico possibile e non perdere nemmeno un’occasione per stare sul palcoscenico. In pratica, monopolizzare l’intero dibattito pubblico. Operazione riuscita. Lo stiamo sperimentando anche qui al Corriere del Ticino: ogni sera, per via del fuso orario, Trump «si sveglia» dall’altra parte dell’oceano e lancia le sue provocazioni, imponendo anche alle nostre latitudini aggiornamenti costanti, interrotti solo dalla necessità di andare in stampa. Questo, pur discutibile, è il maggior successo dei primi cento giorni di MAGA: volenti o nolenti, i media mondiali sono tutti diventati followers di Trump. È lui che detta i tempi. E che, non di rado, usa i media stessi come armi di propaganda e diplomazia. Per adesso il gioco ha retto e, nonostante le promesse fatte in campagna elettorale e in gran parte non ancora realizzate, il tycoon gode ancora di un margine di credibilità non indifferente.

Ma i nodi sono destinati ad arrivare al pettine e il tempo, anche alla Casa Bianca, passa inesorabile. Non tutto potrà essere aggiustato, o rimosso o fatto dimenticare, con una comunicazione debordante. E qui scendiamo nel concreto. Sul piano interno, quello che più interessa i cittadini americani, Trump può rivendicare alcuni successi come quello nel contrasto all’immigrazione dal confine meridionale, nella lotta alla burocrazia e agli sprechi nell’amministrazione pubblica (tanto che il super consulente Elon Musk ha potuto annunciare un parziale rientro nella sua Tesla, dopo la sua missione «quasi ultimata» al DOGE). Ma resta, e solida, l’impressione che questi risultati siano scarni rispetto a quelli promessi in campagna elettorale. Va peggio ancora con la politica estera. La guerra in Ucraina avrebbe dovuto, nei piani del presidente, essere risolta in 24 ore. Per ora abbiamo potuto assistere solo a scene grottesche (come le reprimende indirizzate al presidente ucraino Zelensky ospite nello Studio Ovale) e a un cauto e ondivago dialogo tra Washington e Mosca, condotto peraltro senza badare né a Kiev né all’UE. Quanto al Medio Oriente, la rottura della tregua nella Striscia di Gaza è stata il segnale inequivocabile che nessuna tensione nella regione è stata risolta dall’arrivo alla Casa Bianca del successore di Joe Biden. Per tacere della questione dazi con la Cina. Insomma, siamo nel pieno del vortice dell’era trumpiana, fase due. Cento giorni, ça va sans dire, sono troppo pochi sia per fare un bilancio che per azzardare ipotesi sulla piega che prenderanno gli eventi. Una constatazione, però, possiamo farla. Se ripuliamo i fatti dal polverone mediatico che tanto piace a Trump, siamo abbastanza certi che il presidente, suo malgrado, si stia rendendo conto che per trattare con un mondo non più unipolare si deve usare il fioretto e non quella spada che ha metaforicamente sventolato nei suoi comizi.

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