L'editoriale

Trump, Harris e i nostri conti

A due settimane dal voto americano più importante forse di sempre, è frequente la domanda su quale esito sarebbe migliore per i destini europei
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
22.10.2024 06:00

A due settimane dal voto americano più importante forse di sempre, è frequente la domanda su quale esito sarebbe migliore per i destini europei. Come si sa sovranisti e nazionalisti tifano Donald Trump. Non è solo Orban ad averlo in simpatia. La fila è lunga. Si presume dunque che facendo i conti per i loro Paesi, li abbiano fatti anche per l’Unione europea, forse per la stessa Svizzera e altri. In realtà sappiamo che una nuova presidenza repubblicana applicherebbe, come ha già fatto, nuovi dazi anche contro le esportazioni europee ed esigerebbe ancora più forti investimenti nella difesa. Ma siamo sicuri che metterebbe fine in poche ore - come peraltro spavaldamente lo stesso Trump ha affermato - alla guerra in Ucraina decretando la sconfitta dell’Occidente? Lecito dubitarne.

Le differenze tra i due candidati alla Casa Bianca - che ci appaiono, da questa sponda dell’Atlantico, così ampie - nella realtà lo sono assai meno. Entrambi sostengono Israele che sembra avere, proprio perché l’autorità del grande alleato è di fatto congelata dal turno elettorale, la massima libertà di reagire, con inaccettabili conseguenze umanitarie, al pogrom del 7 ottobre del 2023. Ma il vincitore dovrà comunque porsi il problema di limitare il governo Netanyahu. Trump non accetterebbe mai di distruggere gli accordi di Abramo del 2020 tra Israele e alcuni Paesi sunniti, il più grande successo di politica estera della sua prima presidenza. Tutti e due sanno che il vero nemico è la Cina. Biden tolse alcuni dazi contro le importazioni dall’Unione europea, ma non quelli contro Pechino decisi dal suo nemico.

La sinistra europea ama ovviamente i democratici e si augura il successo di Kamala Harris. Ma l’Inflation reduction Act di Biden, con una massa di 1.200 miliardi per la transizione energetica e generosi crediti d’imposta che hanno attratto investimenti produttivi, soprattutto dall’Europa, è stato un gigantesco atto di concorrenza persino sleale. Gli Stati Uniti avevano tutta la convenienza che l’Europa si liberasse dal gas russo (in realtà copre ancora un quinto delle importazioni). Ma non solo per ragioni strategiche bensì banalmente economiche visti gli interessi nel commercio del gas liquefatto, oltre che del petrolio. I democratici sono più preoccupati dal riscaldamento climatico, ma la Harris ha cambiato radicalmente idea sul cosiddetto fracking.

In Europa ci si agita (a parole) per ridurre i forti indebitamenti pubblici. Entrambi i candidati alla presidenza americana hanno stilato programmi che alzeranno ancora di più il debito pubblico. Trump è per ridurre le tasse; Harris per alzarle alle società e a chi ha un reddito superiore ai 400 mila dollari, soglia massima secondo lei della classe media. Entrambi sono d’accordo nel non toccare i giganti del Web, che li finanziano copiosamente. Curioso poi che nella patria della libertà economica, sia Trump sia Harris abbiano ventilato forme di controllo dei prezzi. Protezionisti a modo loro. La sfida si deciderà poi in quei sette stati in bilico. Dunque, bisogna conquistare i moderati. Alla Harris sfugge la confessione di tenere un’arma pronta e sa che non dispiace. Ha il problema dei maschi neri e non insiste più di tanto sulle questioni di genere. Trump è contro l’aborto, ma la moglie Melania rivela di essere per la libertà di scelta. L’immigrazione è un tema decisivo più dell’economia che non è mai andata così bene. E le posizioni rigide prevalgono tra le comunità di immigrati che la cittadinanza se la sono conquistata con duri sacrifici. Trump deve addirittura controllarsi per non spaventare i repubblicani meno estremisti che non lo amano. E che forse finiranno per votarlo «turandosi il naso».