Trump, tutto tranne un usato sicuro
Donald Trump non ha vinto, ha stravinto: la sua offerta politica, però, è tutt’altro che un «usato sicuro». Le incognite della sua seconda presidenza, infatti, non sono poche. Anzi, sono molte. Ma intanto il tycoon è rientrato a Washington in grande stile e con numeri - a questo giro - talmente netti da meritare una riflessione. Su tutto, c’è stata da parte di Trump una campagna elettorale a dir poco coriacea, costellata di fatti eclatanti che vanno dalle vicende giudiziarie, tante e non ancora concluse, all’essere sopravvissuto per un soffio, o per un «miracolo» come ha detto lui, a un attentato alla sua persona, rivelatosi spettacolare e remunerativo dal punto di vista mediatico e della coesione della base elettorale.
Bisogna dargli credito: l’uomo, alla non facile età di 78 anni, è un lottatore indomito e vanta una leadership che i democratici non hanno mai avuto, né con Joe Biden prima del suo tardivo forfait né in questi ultimi quattro mesi con Kamala Harris. L’animo da gladiatore di Trump, supportato nel finale dall’arrivo di Elon Musk, altro «marziano» a Washington, non basta tuttavia da solo a spiegare questa seconda plateale vittoria. I commentatori hanno subito parlato, all’alba di oggi, quando ormai la strada del tycoon verso la vittoria era in discesa, di un voto «di pancia», cioè irrazionale. Quasi fosse l’onda lunga e revanscista dei gravi eventi di Capitol Hill dopo la sua mancata rielezione. Si tratta di una lettura quantomeno parziale, che rischia di fare torto al popolo americano, e non solo a quella parte che ha votato per il repubblicano, e pure all’idea e alla pratica stessa della democrazia.
In realtà, sugli aspetti che davvero contano nel segreto delle urne, il nuovo (e vecchio) presidente degli Stati Uniti ha saputo rivolgersi agli americani con più concretezza della Harris, approfittando con navigata perizia degli errori e delle incertezze di quest’ultima e di chi l’aveva preceduta. Le sue proposte riguardo l’economia interna sono state più precise di quelle avanzate dai democratici, che pure hanno svolto un egregio lavoro negli ultimi difficili quattro anni. Un lavoro offuscato, però, dal patatrac della candidatura di un Biden stanco e nervoso, poi ritiratosi fuori tempo massimo, quando la strada alla Casa Bianca era già impervia. La vice presidente Harris gli è subentrata con brio e tanta buona volontà, ma anche qui occorre dire che certe caratteristiche epidermiche non bastano, perché il voto, non solo americano, è in qualche modo sempre meno di pancia di quanto si pensi. Per tacer del fatto che l’ombra lunga del forfait di Biden ha in pratica accompagnato la Harris fino all’ultimo, tanto che si dubita fortemente che possa ricandidarsi tra quattro anni. Sulla politica estera, sia Trump che la sua sfidante hanno dato l’impressione di non avere una linea definita, anzi, hanno accumulato slogan contraddittori e strizzatine d’occhio che non lasciano ben sperare anche noi europei, sebbene Trump abbia promesso di mettere fine - non si capisce bene in che modo - alla sanguinosa guerra in Ucraina. Circa l’immigrazione, un argomento assillante e centrale per la popolazione USA, la presa sul tema di Trump è stata salda, «da leader», ça va sans dire, e ha lasciato poco spazio alla Harris, che non poteva spendersi più di tanto su una materia tradizionalmente problematica per i democratici.
Si è trattato, insomma, di un voto in gran parte concentrato sui dilemmi e sulle speranze interne del Paese, che per gli americani sono arrivati a contare molto più dei programmi legati alla politica estera. Nel suo primo discorso, dai toni più pacati rispetto a una campagna a tratti gratuitamente violenta e di basso cabotaggio nella sua narrazione, Trump ha definito «politica» la sua vittoria, un termine preciso e rivelatore, e ha puntato sull’obiettivo di «riunire tutti gli americani» attraverso il recupero di una nazione «di successo». Non sappiamo se ci riuscirà, sebbene il secondo mandato lasci tradizionalmente più libertà politica del primo. C’è da sperare che The Donald usi questo margine di manovra per «riappacificare il Paese» (parole sue) e non per alimentare rabbia e odio, gli stessi sentimenti che sfociarono nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, in quella che rimane una delle pagine più nere della Storia americana.