L'editoriale

Trump-Zelensky: farsi la guerra cercando la pace

Il reale valore della pace (umano, culturale, politico) deve ancora fare il suo ingresso nei negoziati, e per ora non se n’è vista l’ombra – In tutto questo, purtroppo, l’Europa soffia sul fuoco
Paride Pelli
03.03.2025 06:00

Il clamore dello scontro verbale, plateale e senza precedenti, avvenuto fra Donald Trump e Volodymyr Zelensky venerdì scorso alla Casa Bianca, non si è ancora placato. C’è chi ha giustificato il nervosismo del presidente americano, che sta cercando di chiudere la guerra il prima possibile e a modo suo, con metodi spicci e autoritari, come da impegni presi in campagna elettorale, e chi ha solidarizzato con quello ucraino, disponibile a un cessate il fuoco ma solo dietro determinate garanzie di sicurezza per il proprio Paese e, evidentemente, anche per se stesso e per il proprio futuro, non solo politico. Entrambe queste posizioni sono polarizzate e partono dal presupposto che sia Trump che Zelensky - e mettiamoci pure l’UE - inseguano lo stesso obiettivo, ossia la fine del conflitto, e che li separi solo il modo di raggiungerlo. Se non proprio una questione di dettagli, qualcosa di simile, da affrontare al tavolo delle trattative. Ma la lite nello Studio Ovale ha purtroppo fornito al mondo la fotografia, di un realismo sconcertante, di due commander-in-chief che - paradossalmente - si sono fatti la guerra nel tentativo di cercare la pace. Più che un dialogo tutto teso verso un’unica direzione - fermare il massacro che ancora miete vittime sul fronte ucraino-russo - quello andato in scena venerdì è somigliato molto di più, per usare un eufemismo, a un brutale e violento litigio d’affari. E negli affari purtroppo, tradizionalmente, la pace e il risparmio di vite umane, fosse anche una sola, non sono in cima alla lista degli interessi da conquistare o da difendere.

Questo non può e non deve lasciarci indifferenti: nessuno chiedeva a Trump e Zelensky di tramutarsi per l’occasione in papa Francesco, Gandhi o qualche altro apostolo della non violenza. Ma il tracollo totale della diplomazia a cui si è assistito attoniti, davanti alle telecamere di tutto il mondo, ci suggerisce, purtroppo, che quando sia l’uno sia l’altro, negli ultimi mesi e giorni, comunicavano la propria intenzione di «porre fine a questa guerra ridicola in 24 ore» (Trump) o di «essere pronto a dimettermi in cambio della pace» (Zelensky), erano purtroppo solo in campagna elettorale o parlavano col vuoto automatismo della retorica pacifista. Il reale valore della pace (umano, culturale, politico) deve ancora fare il suo ingresso nei negoziati, e per ora non se n’è vista l’ombra. In tutto questo, purtroppo, l’Europa soffia sul fuoco.

Ieri si è tenuto a Londra un vertice sulla Difesa comune, giovedì prossimo se ne avrà un altro straordinario a Bruxelles specifico sull’Ucraina. L’UE, con la Francia per prima, vede nel sostegno militare a Kiev l’occasione di rilanciare e integrare la propria industria bellica. Anche in UE dunque, con più prosopopea che a Washington, si parla soltanto di affari. Non siamo nati ieri, e sappiamo che la guerra è anche, ça va sans dire, un grosso affare. Ma dopo tre anni di morti e devastazione in Ucraina, di crisi economica soprattutto europea e di instabilità geopolitica, rischiare di perdere anche la pace in nome di altro è qualcosa che non si può più tollerare.

In conclusione, se la prassi di politica estera della presidenza Trump è e sarà nei prossimi anni quella che abbiamo visto all’opera nello Studio Ovale, prepariamoci: il futuro non riserverà nulla di buono, anche dopo un eventuale cessate il fuoco e l’inizio della ricostruzione dell’Ucraina, poiché lo stesso modello «negoziale» si replicherà anche su altri fronti: dazi commerciali, Medio Oriente, Cina e Taiwan. Siamo di fatto entrati in una nuova epoca, dove la pace non sembra più un valore fondante ma sempre più un fattore meramente contabile.