L'editoriale

Un esile filo d'erba, un segno di speranza

La tregua è fragilissima, ma dopo tutto quello che è accaduto anche un esile filo d’erba ci appare un robusto segno di speranza
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
17.01.2025 06:00

La tregua è fragilissima. Per ora è solo un cessate il fuoco che anche ieri, nonostante l’annuncio dell’accordo di Doha, non è cessato. Da domenica sarà ufficiale. Forse. Ma dopo tutto quello che è accaduto, dall’attacco terroristico del 7 ottobre del 2023, alla reazione israeliana, pur legittima ma spietata e inaccettabile, anche un esile filo d’erba ci appare un robusto segno di speranza. Ora ci auguriamo, se tutto andrò bene, che le cronache dedichino ampio spazio al sollievo e al dolore delle famiglie. Tutte. Alla gioia di chi riabbraccia gli ostaggi liberati nel rispetto dello strazio supplementare di chi ne constaterà la morte. Alle pene e alle attese degli abitanti della Striscia di Gaza, affinché possano avere un futuro meno precario che li liberi dal destino di essere usati come scudi umani dai terroristi di Hamas. Senza una nuova forma di dialogo, senza un supplemento di pietas, di tutela dei diritti universali che spezzi i vincoli sanguinari del terrore, la tregua non si trasformerà mai nemmeno in una parvenza di pace. Il filo d’erba appassirà in fretta.

I media internazionali non hanno potuto raccontare con i loro inviati, come avrebbero voluto, tutto ciò che è avvenuto nella Striscia. Ci illudiamo (ma perché dovremmo arrenderci?) che il resoconto onesto dei fatti, favorito immaginiamo dalla tregua, contribuisca a migliorare i rapporti tra le parti o quantomeno a non peggiorarli. Dopo il rilascio scaglionato di 33 ostaggi israeliani e 1200 detenuti palestinesi, il parziale ritiro delle truppe israeliane, l’afflusso di aiuti umanitari, le fasi successive dell’accordo di tregua prevedono una gestione internazionale congiunta della Striscia, con Egitto, Qatar e Onu, e poi un ruolo dell’Anp, peraltro avversata se non odiata da buona parte dei palestinesi. Solo l’idea di metterli insieme, nei lunghi mesi delle trattative, appariva impossibile. E così del tutto remota l’ipotesi di un futuro autogoverno palestinese. Lo è ancora. Rimuovere 42 milioni di tonnellate di macerie, avviare una ricostruzione di edifici, ospedali e uffici costituisce un onere rilevante. Ma è nulla rispetto all’esigenza di rimuovere le macerie invisibili dell’odio e alla sfida di ripristinare un minimo di fiducia dopo lustri di guerre e lutti. L’estrema fragilità dell’intesa è tutta qui.

Non basterà, per disegnare un percorso di relativa pace, la sola misurazione dei rapporti di forza. Hamas è indebolita ma non sconfitta. Sembra abbia ancora 20 mila combattenti. Il reticolo dei sotterranei non è stato distrutto, anzi. Certo, dopo la sconfitta degli Hezbollah in Libano, il cambio di regime in Siria, la leadership di Netanyahu è cresciuta. Anche, e soprattutto, grazie al legame con Trump. Le regole della geopolitica muscolare di questi tempi sono spietate e, per certi versi, ingiuste. L’annuncio della tregua è stato dato dal presidente americano eletto. Trump ritiene che senza la sua minaccia di scatenare l’inferno nella Striscia (anche se è difficile immaginare qualcosa di più infernale di quanto sia successo) la tregua non ci sarebbe stata. Ma non vanno dimenticati i meriti dell’amministrazione americana uscente, gli infiniti viaggi del segretario di Stato, Blinken, del consigliere Sullivan, del capo della Cia, Burns. È anche vero, però, che se il 5 novembre non avesse vinto Trump, sarebbe stato assai difficile convincere (sempre che ciò avvenga veramente) la destra estremista del governo Netanyahu ad accettare un’intesa. Una tregua forse ritardata per essere annoverata come il primo successo di una presidenza americana non ancora iniziata.  

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