Viola Amherd: un buon inizio, un seguito difficile
La sorpresa è giustificata per la scelta di tempo ma relativa, perché le possibili dimissioni di Viola Amherd nel corso del 2025 erano da parecchio una voce ricorrente. La consigliera federale è reduce da un anno presidenziale intenso che l’ha proiettata più volte sulla ribalta internazionale. Ma per contrasto ha anche dovuto fare i conti con una situazione interna complicata, sia per i problemi emersi nel suo dipartimento, sia per alcune scelte forti - come la ricerca di una maggiore collaborazione internazionale in campo militare -, che le hanno attirato un crescendo di critiche e di attacchi, in un clima divenuto vieppiù ostile. Le vere ragioni che l’hanno spinta a farsi da parte non le ha dette apertamente ma sono intuibili. In queste condizioni, è anche probabile che la partenza alla fine dell’anno della sua assistente-confidente Brigitte Hauser-Süess abbia avuto un ruolo. Prima donna ad assumere le redini politiche della Difesa - un ambito a lei del tutto estraneo fino all’entrata in Governo visto che proveniva dall’ala sinistra e femminista dell’allora PPD - Amherd ha vissuto un periodo in cui si sono alternati successi, errori, problemi di gestione e sono state avviate riforme ancora difficili da valutare. Nel dipartimento diretto ininterrottamente per più di vent’anni da «ministri» UDC e considerato a torto di secondo piano, ha sicuramente portato una ventata d’aria fresca. Ha vinto la battaglia per il rinnovo della flotta degli aerei da combattimento, grazie anche ad un’abile campagna comunicativa, riuscendo là dove aveva fallito il suo pre-predecessore Ueli Maurer nel 2014 con i Gripen. Ha poi fatto una scelta di rottura, nominando un nuovo capo dell’esercito proveniente dall’economia privata. Sotto la sua responsabilità, durante la pandemia c’è stata la più grande mobilitazione (parziale) della truppa dalla Seconda guerra mondiale. Con lo scoppio del conflitto in Ucraina ha riportato sul tavolo il tema concreto della guerra e del potenziamento delle forze armate, che dopo tre decenni di cura dimagrante non sarebbero in grado di svolgere la loro missione principale. Grazie alla spinta data da Amherd (ma non solo), il bilancio dell’esercito è stato sensibilmente aumentato ed è stata avviata una nuova dinamica.
Collateralmente, però, sono anche emersi problemi e limiti che offuscano il bilancio di Amherd: le incomprensioni con la «ministra>» delle Finanze Karin Keller-Sutter sui ritmi, i modi e l’entità del finanziamento delle forze armate in un periodo di deficit strutturali; la mancanza di un piano di riarmo chiaro e condiviso in grado di compattare le forze borghesi; il pasticcio comunicativo sulle risorse dell’esercito, che per tre settimane ha causato titoli negativi e non ha certo giocato a favore della credibilità dell’istituzione; i problemi emersi nella RUAG per il tentativo di rivendere in Germania, con destinazione Ucraina, 96 vecchi carri armati Leopard 1 acquistati a suo tempo dall’esercito italiano; le tensioni interne al Servizio delle attività informative della Confederazione, sottoposto a una radicale riorganizzazione; la separazione dal precedente capo dei servizi Jean-Philippe Gaudin nel 2021 che ha lasciato per mesi il SIC senza una guida; i recenti problemi di gestione - che non sono comunque una prerogativa del DDPS - dei progetti informatici. Al di là del prestigio per il suo ruolo nella Conferenza per la pace del Bürgenstock e per essere riuscita a chiudere l’anno presidenziale suggellando con Ursula von der Leyen la fine dei negoziati con l’UE sul nuovo pacchetto di accordi bilaterali, c’è chi ha rimproverato ad Amherd di aver lasciato un dipartimento alle prese con sé stesso, di aver mantenuto troppa distanza fra lei e i vertici militari e di aver mancato l’obiettivo di mettere ordine nel settore. Toccherà farlo ora al suo successore, dal quale sono attese soprattutto capacità di leadership per portare a termine l’ardua missione di ricostituire le capacità di difesa.
La partenza di Amherd apre una fase interessante in un anno politico sotto tono per l’assenza di grossi temi (si voterà in febbraio su un unico oggetto minore e poi solo in settembre). La corsa alla successione, che occuperà i prossimi due mesi, non è scontata. Il presidente del partito Gerhard Pfister, dimissionario, parte in «pole position» ma questo non significa che avrà la strada spianata per il Consiglio federale, come l’avevano avuta in passato i suoi predecessori Flavio Cotti e Doris Leuthard. Altri tempi, altre condizioni. Anche perché internamente il consenso non è granitico e la concorrenza si farà sentire. Del resto, la storia recente del Consiglio federale conferma il detto che chi entra papa in conclave ne esce cardinale.