I preti, la solitudine e la questione del celibato

Gentile Carlo Silini, la solitudine dei preti è un tema molto delicato e abbastanza difficile da approfondire. Cominciamo con il celibato dei preti sul cui obbligo la nostra Chiesa non cambia parere. Permettere ai parroci di creare una famiglia significa confrontarli con la crescita dei figli, abolire la solitudine e avere un supporto quando gli anni cominciano a pesare. L’abolizione del celibato aiuterebbe anche le vocazioni che è un problema acuto da risolvere. Noi partecipiamo alla Messa della domenica, abbiamo contatto con il parroco, ma poi ignoriamo come il parroco trascorre le sue giornate, quali sono i suoi pensieri, i problemi della parrocchia, come riempie i suoi tempi vuoti. E nelle grandi città questi aspetti sono più evidenti che in periferia. I Pooh hanno dedicato una canzone ai preti: «Uomini soli». Basterebbe scorrerne il testo per intuire o capire come un parroco può sentirsi solo in certi momenti della giornata, in certe fasi della sua vita. La nostra Chiesa, il nostro papa Francesco si dovrebbero porre queste domande. Ma siamo ancora lontani dal considerare anacronistico, nei tempi nei quali viviamo, il celibato dei preti. Gesù nel suoi anni di vita sulla Terra era circondato da dodici Apostoli quasi tutti con famiglia. Non erano celibi, ma uomini che vivevano una vita piena. Possiamo sperare in una Chiesa al passo con i tempi, senza tuttavia cambiare quella che è stata sin qui la sua storia attraverso il Vangelo?
Giacomo Realini, Caslano
La risposta
Caro Giacomo Realini, anche se il suo ragionamento fila, non so se si possa associare la solitudine dei preti con il loro celibato. Non avere una famiglia, non avere figli, è una scelta radicale e difficile. Perché sia vivibile, il celibato va riempito con un amore diffusivo, un dono di sé convinto e in un qualche modo corrisposto. Altrimenti è una sfida sterile. Alcuni, infatti, non ce la fanno: lasciano l’abito o si inaridiscono. Ma conosco preti tutt’altro che soli perché si spendono con e tra la gente, stabiliscono profonde amicizie con confratelli e parrocchiani, sono circondati dalla premura di molte persone. Sono, insomma, assai meno soli di tanti individui sposati. E poi c’è solitudine e solitudine. La solitudine-assenza è una pena per tutti, ha a che fare con l’abbandono e con l’oblio. Fondamentalmente: con la sconnessione dagli affetti e dagli altri. Tuttavia, per degli uomini di fede la solitudine dovrebbe essere sinonimo di presenza: «Nada te turbe, nada te espante. Quien a Dios tiene, nada le falta» (nulla ti turbi, nulla ti spaventi, se hai Dio non ti manca niente) scriveva santa Teresa d’Avila. Da questo punto di vista, nella sua cameretta il prete – in realtà qualsiasi credente – non è mai solo. Ciò detto, sono d’accordo con lei. Il celibato obbligatorio dei preti è anacronistico. Voglio essere più preciso: il celibato resta un valore, anche solo per il fatto che permette una dedizione totale al prossimo. Anacronistico è che sia obbligatorio, costringere chi vuol fare il prete a rinunciare per forza a una famiglia. Lo si renda facoltativo, o si consenta ai preti di rinnovare o disdire il voto se, a un certo punto del loro ministero, non riescono più a sostenerlo.