I sintomi tedeschi sono comuni all’Europa
È settembre e non gennaio il mese che segna in realtà il giro di boa dell’anno, il momento in cui si stilano i bilanci e si getta uno sguardo oltre i successivi tre mesi. Gli ultimi scampoli d’estate richiamano alla mente ancora il ricordo delle recenti vacanze, ma l’attività produttiva e sociale riprende a pieno regime. Cosa attendersi, allora, dall’imminente autunno?
Dal punto di vista continentale c’è la certificazione del forte rallentamento della dinamica economica appesantita soprattutto da quella della Germania. Il settimanale britannico The Economist ha, infatti, dedicato la storia di copertina e un ampio servizio sui problemi che sta conoscendo quella che è nota come la «locomotiva d’Europa» ma che rischia di diventare «il malato d’Europa» definendo quella tedesca «un’economia in declino con una burocrazia pesante e modelli di business superati». Una descrizione impietosa per quello che è ancora il primo paese manifatturiero del Vecchio Continente con un forte avanzo commerciale nei confronti dell’estero e un deficit di bilancio contenuto. Un altro dato certo è che per tre trimestri consecutivi il PIL (Prodotto interno lordo) tedesco ha conosciuto una contrazione o una stagnazione tanto che potrebbe essere l’unica tra le grandi economie occidentali a decrescere quest’anno con tutte le conseguenze negative per l’intera Eurozona e le economie fortemente interrelate come quella Svizzera, per esempio. La filiera produttiva delle grandi imprese tedesche, dalle case automobilistiche a quelle di tecnologia industriale e impiantistica, si estende molto oltre il confine verso gli ex Paesi del blocco sovietico: Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia.
I problemi tedeschi evidenziati dall’Economist in realtà riguardano tutta l’Europa e potrebbero essere estesi in rapporto di uno a uno al resto del mondo occidentale: la denatalità; la carenza di lavoratori qualificati in ampi settori produttivi; l’addio al mondo del lavoro e quindi il pensionamento di milioni di baby boomer nei prossimi 5-10 anni con, in prospettiva, il conseguente aumento della spesa sociale e sanitaria. A questa si aggiunge anche la difficile transizione energetica. La decarbonizzazione dell’economia è un percorso obbligato, ma non sta procedendo come auspicato anche a causa della guerra in Ucraina che ha riportato al centro dell’attenzione pubblica l’importanza strategica delle energie fossili. Basta pensare a un anno fa quando il prezzo del gas in Europa era aumentato in modo repentino causando maggiori costi per imprese e famiglie. L’innovazione tecnologica è vista da molti come la panacea per risolvere gran parte di questi temi: dalla crisi climatica a quella demografica, passando per quella energetica. Necessita però di investimenti a livello sistemico importanti dal punto di vista finanziario che – a dire la verità - non si vedono all’orizzonte. Almeno, non nella misura auspicata. Se ne intravvedono però i potenziali rischi sociali, senza evocare scenari distopici da film di fantascienza, in termini di distruzione di posti di lavoro e di cambio di paradigma economico. Lo stesso World Economic Forum, in un’analisi dello scorso maggio, stima in 14 milioni i posti di lavoro che spariranno nei prossimi cinque anni a causa del processo di digitalizzazione e di automatizzazione dell’economia. Insomma, il modo di produrre e consumare nel prossimo futuro sarà molto diverso da quello attuale e come ogni rivoluzione, anche quella tecnologica lascerà dietro di sé «morti e feriti». Questi però sono scenari per il futuro molto lontano.
Per rimanere all’economia svizzera, essa rimane in zona crescita anche se a livelli bassi. La Segreteria di Stato per l’economia lo scorso giugno ha ribadito l’ottimistica previsione del +0,8% per quest’anno. Ma molto dipenderà anche da cosa succederà in Europa.