Il 7 ottobre e l'incombente minaccia del nulla
Questa storia guarda al passato, al 7 ottobre dello scorso anno, e si perde alla ricerca delle premesse, di un contesto che renda il tutto più facilmente spiegabile, in qualche modo comprensibile. Ma fatica a guardare a un futuro. Anzi, al momento ci si perde in un non futuro. Che è quello di un’area in guerra, senza se e senza ma, senza distinzioni, senza restrizioni. L’abisso in cui si muove Israele è un non futuro. Una sorta di grande nulla, che coinvolge l’intero Medio Oriente. È lo stesso di cui ci parlava David Grossman a una settimana da quei fatti, firmati con il sangue da Hamas. Il grande scrittore di Gerusalemme si chiedeva: «Chi saremo, che persone saremo dopo questi giorni, dopo aver visto quello che abbiamo visto?». Domande a cui non era in grado di rispondere, allora. Non lo sarebbe, probabilmente, neppure oggi. Ma già intuiva: «Le persone qui si sentiranno più israeliane, più ebree di prima. Sarà una parte ancor più forte della loro identità. Ciò che la gente ha passato, in questi giorni, è indescrivibile e avrà un effetto traumatico. Gli israeliani riconosceranno la profondità dell’odio verso Israele, l’odio che ha portato Hamas a commettere quei crimini. Lo capiremo in un modo che prima potevamo soltanto intuire, immaginare». Poi continuava: «Siamo un Paese che, se vuole sopravvivere, deve stare sempre all’erta, giorno e notte. E dovremo pagare un prezzo estenuante, se vogliamo avere qui una vita libera, democratica, se vogliamo un Paese che dialoghi con i suoi vicini e con il mondo intero, un Paese che non sia razzista. Solo allora la vita sarà vita, una vita che è casa». Sono parole che, lette un anno dopo, hanno un senso ancora più profondo. Perché da allora sono accadute molte cose. Tutte brutte. Lo diceva, Grossman: «Un prezzo estenuante». Un presente estenuante per un futuro che neppure si riesce a intravedere, o che neppure c’è. È un futuro sotto scacco di minacce incrociate, nucleari.
Non è un caso che il nome scelto dall’Iran per i suoi due attacchi contro Israele, in due fasi distinte di questo conflitto, sia stato «Vera promessa». Vera promessa numero uno e vera promessa numero due. Promesse! Come quelle ripetute, ancora venerdì, da Ali Khamenei. La guida suprema dell’Iran ha ribadito che non esiterà «a rispondere ancora se sarà necessario, e saremo rapidi nel farlo». Parole che facevano seguito a quelle di Benjamin Netanyahu: «L’Iran ha commesso un grande errore e ora ne pagherà le conseguenze». Il futuro in forma di minaccia. O di promessa, se si rivolta la minaccia in forma propagandistica. «Israele non ha più molto da vivere», ha esclamato Khamenei, provando a compattare, con le sue parole, tutte le nazioni musulmane, «dall’Afghanistan allo Yemen, da Gaza al Libano». Un appello «contro il nemico comune», che Israele prova a ribaltare creando le condizioni - come dichiarato dall’ex premier Naftali Bennett - per una sollevazione degli iraniani che faccia «finalmente cadere il regime». È, questa, l’idea di un nuovo ordine per l’intero Medio Oriente. Israele si aggrappa a questa prospettiva ideale, utopistica, per andare oltre il presente. Ma quanto accaduto dal 7 ottobre scorso sino a oggi, sino a questo nuovo 7 ottobre, ha cancellato una volta per tutte l’obiettivo della convivenza, di una convivenza possibile. Come credere, oggi, per Israele, ma anche per la regione tutta, che ci possano essere, domani, confini sicuri, rapporti di vicinato basati sulla fiducia? Questo, in fondo, è allora il pericolo più grande. La minaccia esistenziale nella sua forma più drammatica. Il rischio di un nichilismo ben oltre la paura. Grossman chiudeva l’intervista ammettendo di desiderare «solo la pace». E rifletteva: «Mi rendo conto di aver parlato di un sogno di pace che svanisce, ma non posso permettermi il lusso di disperare».