Il tempio del diavolo

Qualche luganese tra i meno giovani ricorderà l’edificio che faceva mostra di sé, con i suoi simboli e la sua aura di mistero, al civico 20 di via Pretorio, un piccolo palazzo demolito alla fine degli anni Sessanta (l’epoca più allegra e disinvolta per questo genere di sport) davanti al quale le vecchie famiglie di conservatori evitavano di passeggiare con i figli perché «lì ghè dent al diavul». Non saprei dire se accada anche con l’attuale tempio massonico, decisamente più sobrio, costruito sul medesimo sedime nel 1971. Oggi ne sorridiamo ma una scena simile è sintomatica della difficoltà che la presenza massonica dovette incontrare nel suo radicarsi nella Svizzera italiana, e questo nonostante le ampie maggioranze liberali e le due «rivoluzioni» che hanno scandito il nostro Ottocento. Chi mi conosce sa da che parto sto, e quali siano le mie parrocchie, ma da ricercatore non posso non guardare con interesse a questi fenomeni sociali e culturali (i due aspetti sono sempre legati tra loro) che percorrono trasversalmente la storia della nostra regione, arricchendone il paesaggio.
In una società tradizionalmente intrisa di cultura cattolica, tutto ciò che ne esula – dal protestantesimo all’ebraismo all’ateismo tout court – contribuisce a definire quel pluralismo che oggi diamo per scontato, ma che in passato era lungi dall’essere tale.
Una prima testimonianza, se non di una solida presenza, certo di una curiosità per la massoneria traspare già sul finire del XVIII secolo dai catologhi della tipografia Agnelli, affacciata sulla futura piazza della Riforma.
Nel 1787 usciva infatti dai suoi torchi un pamphlet che, dietro a un titolo pensato più che altro per la censura (I segreti dei liberi muratori svelati al pubblico a loro dispetto), offriva una panoramica tutto sommato neutra del fenomeno. E ancora nella prima metà dell’Ottocento non mancavano, in altro contesto, sparse manifestazioni di appartenenza sotto forma di tombe che poco avevano a che spartire con l’arte funeraria locale:
si pensi almeno alla piramide della famiglia Saroli sul margine del cimitero di Cureglia, una delle tante ispirate, nel mondo, al monumento di Antonio Canova per Maria Cristina d’Austria, qui con l’aggiunta di qualche improbabile geroglifico sul portale dell’Ade.
L’istituzione di una prima loggia svizzeroitaliana è di poco più tarda (1877) e si inserisce nel quadro dei duri scontri tra conservatori e liberali che nel 1890 avrebbero costretto le autorità federali a mandare truppe a sud della Alpi. Al radicarsi in Ticino di questa forma di associazionismo, che aveva conosciuto la sua fortuna nell’Europa e nell’America del tardo Settecento, non era del tutto indifferente la presenza a Lugano di esuli celebri, come il socialista Benoît Malon, o di albergatori di lunga esperienza come Alexander Béha, che dai suoi uffici all’Hôtel du Parc firmava lettere su carta intestata con simboli massonici. Chi erano allora i primi fratelli ticinesi? Se prendiamo a campione i primi cento affiliati della Loggia «Il Dovere», troviamo una maggioranza di negozianti, osti e spedizionieri, qualche geometra e soltanto una manciata di avvocati. Persone, soprattutto, provenienti da ogni angolo del Canton Ticino, alte valli comprese.
Recentemente i diretti interessati hanno voluto ricordare all’ex seminario diocesano San Carlo (come cambiano i tempi!) i 120 anni dalla costruzione del loro primo tempio, sorto in una zona che stava conoscendo all’epoca un importante sviluppo urbanistico, tra il nuovo pretorio, le carceri e la centrale del gas. Il terreno era stato donato da Antonio Lepori, figlio dell’ingegnere-capo del Canale di Suez, mentre il progetto fu affidato al bellinzonese Maurizio Conti, che si ispirò per l’esterno alle linee neoclassiche di Palazzo Civico, e per l’interno alle logge della Svizzera tedesca. Quanto a me, la prossima volta che mi troverò in zona con le bimbe, attraverserò sicuramente la strada: non fosse altro che perché, da una certa distanza, le cose si osservano meglio.