La medicina delle donne

di Chiara Cauzzi* e Sara Sermini**
In una conversazione radiofonica del 1951, la scrittrice Karen Blixen riflette sulle prime forme fotografiche, i cosiddetti dagherrotipi, e contemporaneamente sulle immagini mentali che questi pezzi di carta ingiallita innescano, riemergendo spesso improvvisamente dagli armadi di casa: «Teniamo in mano un’immagine mentale della struttura e dell’ideologia di un’epoca, da cui emana, come da un vaso di pot-pourri riposto da tempo, l’essenza fine, genuina di una cultura scomparsa». Certo, ogni manufatto porta inscritta la «storia della cultura», per dirla con Blixen, ma al tempo stesso ci invita a ragionare sulle contiguità con il nostro tempo e sulle modalità in cui gli immaginari si costruiscono, deformano o decostruiscono nel tempo. È il caso di un libro intitolato La medicina delle nostre donne. Studio folklorico redatto dal dott. Zeno Zanetti e pubblicato a Città di Castello dal tipografo S. Lapi nel 1892, con l’aggiunta di una lettera intitolata Psicologia delle superstizioni del medico e senatore Paolo Mantegazza. Il libro è custodito nella Biblioteca universitaria Lugano ed è parte di un Fondo librario, appartenuto al medico luganese Attilio Celio, che conta 133 volumi, antichi e moderni, consultabili in sede, i cui argomenti spaziano dalla medicina legale alla chirurgia, dalla patologia all’ostetricia, dallo studio dell’epilessia al metodo per curare le febbri. Attilio Celio era un medico chirurgo che svolse gran parte della sua attività lavorativa nel vecchio ospedale civico di Lugano con alcuni periodi di pratica in Austria e a Parigi ed era un appassionato viaggiatore. La sua raccolta si caratterizza, quindi, per la presenza di volumi legati alla sua professione, acquistati nel corso dei suoi viaggi, o ricevuti da conoscenti e amici come nel caso del libro in questione.
Il volume attira l’attenzione delle lettrici e dei lettori di oggi fin dal titolo: la preposizione delle e l’aggettivo nostre raccontano infatti una storia precisa che va ovviamente collocata nel contesto storico-culturale in cui il libro appare: le donne vestono i panni delle «osservate speciali», per il loro presunto ruolo di divulgatrici delle più disparate superstizioni in ambito medico. L’autore le definisce come «ignoranti e colte», più «conservatrici» degli uomini e sempre pronte a «recare, in qualche modo, un sollievo a coloro che soffrono». Sentiamo tutta la distanza che ci separa da un simile pensiero e, al tempo stesso, notiamo come ancora oggi le donne siano oggetto dello sguardo altrui. Alle donne ci si ostina a voler dare voce, a narrarle, anziché creare le condizioni affinché possano sempre prendere parola autonomamente, in particolare sulle questioni che le riguardano. Inoltre, ancora oggi si continua a considerarle come, se non le sole, le principali addette alla «cura». Lo ha ricordato Laura Marzi in un recente volume intitolato Raccontare la cura. Letteratura e realtà a confronto (Futura editrice, 2024), mettendo in luce al tempo stesso la necessità di un approccio pluridisciplinare per capire il ruolo delle cosiddette care givers: «la cura è un atto di potere, ma è anche una relazione», che ha «conseguenze intime e politiche, sociali e domestiche». Ripensare alle narrative sulle donne e alle politiche della cura, studiare gli immaginari che ancora segnano il destino delle donne, per decostruirli e scardinarli restano, ancora oggi, atti necessari. E un testo come quello conservato nel Fondo Celio ci aiuta a farlo, misurando distanze e persistenze di molti immaginari.
* collaboratrice BUC
** post-doc USI