La strada di Samuel Fuller
La bussola di oggi ci permette di puntare nella direzione di un’isola collocata nel mezzo del grande mare dei film del Festival di Locarno. Quest’isola è Strada senza ritorno, l’ultima opera di Samuel Fuller, premiato nel 1993 a Locarno con il Pardo d’onore. Realizzato nel 1989 in Portogallo e interpretato da Keith Carradine, il film all’epoca ebbe una piccolissima uscita in sala. Poi, quasi scomparve del tutto. Ritorna in vita a Locarno in un magnifico restauro in 4K, in cui la definizione dell’immagine è stata rielaborata e sono state eliminate le imperfezioni dovute al momento della realizzazione. La storia di Strada senza ritorno indica che anche un film relativamente recente rischia, di fatto, di essere smarrito. E senza entrare nella questione - tutta filologica - se sia meglio conservare i difetti dell’epoca o rimuoverli, conferma come Locarno rimanga fortemente impegnata a conservare la memoria del cinema.
Ripartiamo, allora, da Fuller e dal suo ultimo film per dire che la cinefilia, l’amore per il cinema, sono strade senza ritorno. Chi si innamora del cinema difficilmente devia, raramente cambia idea. Anche e soprattutto di fronte ad autori e a titoli controversi. Dipinto a lungo come un feroce anticomunista o accusato di essere soltanto un regista di genere e commerciale, l’autore di Corea in fiamme, I figli della gloria e Mano pericolosa, fu “salvato” dai giovani e scalpitanti critici dei Cahiers du Cinéma, i quali vedevano nel suo lavoro la cura ai mali del cinema di matrice teatrale e letteraria che si continuava a fare in Europa e che passava per cinema serio. I ragazzi della Nouvelle Vague (François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e altri ancora) sapevano come farsi qualche nemico: Fuller, a differenza di Alfred Hitchcock, metteva infatti il naso anche in questioni politiche all’epoca estremamente dibattute. In Italia, i cinema che proiettavano Corea in fiamme erano vandalizzati da un pubblico inferocito per il supposto reazionarismo di Samuel Fuller. Il quale, in realtà, era soltanto un grandissimo regista, formato alla scuola del giornalismo americano, come racconta uno dei suoi primi film girato nel 1952, Park Row. Fuller era un regista visionario: muoveva magistralmente la macchina da presa o i carrelli e usava i tagli e gli stacchi di montaggio in maniera unica. Direse film femministi quando la parola femminista nemmeno esisteva - pensiamo a Quaranta pistole del 1957 o a Il bacio perverso del 1964; indagò prima di altri il disagio mentale, con Il corridoio della paura (1963); affrontò l’irrisolta questione razzista con Cane bianco (1982), film frainteso e quasi scomparso oggi; e firmò western assolutamente anticonvenzionali come La tortura della freccia (1956), molto prima che il cosiddetto western revisionista si affermasse definitivamente con Soldato blu di Ralph Nelson, film del 1970. Suo è Il grande uno rosso (1980), uno dei più bei film di guerra forse mai girati, insieme con Il nudo e il morto (1958) di Raoul Walsh.
Insomma, Samuel Fuller le ha fatte tutte. Anche l’attore. Con Wim Wenders, con Steven Spielberg e con Jean-Luc Godard in Pierrot le fou (1965), film nel quale pronuncia quella meravigliosa battuta: «Il cinema è un campo di battaglia». Anche per questo abbiamo puntato la nostra bussola in direzione di Strada senza ritorno: per celebrare un autore, un film e riaffermare il diritto di popolare isole prima disabitate.