L'anima perduta
Nel tiro alla fune tra conservatori e progressisti, tra il passato che non molla e il futuro che saldamente si impone, è buona prassi riuscire a trovare una qualche forma di equilibrio. Ne va della nostra salute mentale. Tanto più quando le accelerazioni – e la nostra è una di quelle epoche, anzi un vero e proprio «cambiamento d’epoca», come non finisce di ripetere papa Francesco – sono tali da sbilanciare sempre più i pesi verso l’orizzonte del possibile, lasciando sul campo tutta una serie di vecchie vestigia. Non amo l’immagine del bambino e dell’acqua sporca, ma è ben vero che, nel congedare se non addirittura nel rottamare un intero piccolo mondo antico, non si sa bene cosa si perda per davvero. Recuperarlo, poi, è impresa quasi impossibile.
Pensiamo alla Francia, che nella sua foga di accentramento culturale e amministrativo, dove ogni cosa avviene sempre e soltanto a Parigi o negli immediati dintorni, in pochi decenni hanno finito per fare strame di tutti i dialetti, idiomi che quasi nessuno parla più. Ma guardiamo anche alle nostre latitudini. Me ne dà occasione un libretto di Silvano Montanaro pubblicato recentemente dalle Edizioni Fontana di Pregassona, in cui in luogo della proustiana madeleine si elegge a immagine-feticcio una ben più prosaica fetta di «pan büter e zücar», emblema di una merenda d’antan calata con il cestino dai terrazzi più alti di Molino Nuovo.
Il volume ha le ambizioni che ha, più che altro di stimolo a una narrazione personale che può diventare esperienza comune e condivisa: e in questo fa un’operazione importante. Non riscriverà la storiografia di Lugano, aggiungerà semmai qualche «amarcord» (ma alla fine quanto vale davvero un ricordo? che peso gli diamo nella gerarchia delle nostre vite? se lo chiede, giustamente, lo stesso Montanaro). Mi interessa però anche il sottotitolo, in cui si cela forse la più intima consapevolezza dell’autore: «Frammenti di una vita bella». Ci vuole coraggio a usare oggi tali aggettivi (bello, buono) che nella loro schiettezza fanno quasi arrossire. Ma Montanaro ha ragione: quello che rischiamo di perdere, se non stiamo più che attenti, sono la bellezza e la genuinità di un certo tipo di vita, di una modalità di esistenza dispiegata su ritmi lenti, fatta di oggetti concreti, relazioni stabili (per quanto possibile), luoghi riconoscibili e confini netti (che non vuole dire rigidi o invalicabili). Sono sicuro che molti lettori staranno visualizzando ora la loro infanzia. Epoca mitizzata forse, eppure, come sempre, lo stereotipo è foriero di una qualche verità.
Mi cullo in pensieri simili, lusso degli intellettuali e degli storici, mentre constato come negli ultimi anni il centro di Lugano sia andato esattamente nella direzione opposta: scomparse le famiglie e persino, in gran parte, le sedi scolastiche, aperti a ogni angolo ristoranti che poco hanno a che fare con la realtà locale (dagli onnipresenti Sushi Bar alle furbissime pizze gourmet), mi aggiro tra signore russe con cagnolini incravattati, imprenditori lombardi che parlano quasi soltanto di bitcoin, cesti di frutta e verdura a prezzi di gioielleria. Dove è finita l’anima di Lugano? Sta anche, naturalmente, nell’elenco che ho appena stilato, versione 2.0 dell’essere sbroja: un atteggiamento ambizioso che in passato ha fatto la fortuna della città, specie verso l’esterno, e che non si può soltanto biasimare. Al netto dei guadagni turistici, della spinta all’internazionalizzazione e delle proiezioni affascinanti dentro il futuro (l’USI, il LAC, il Lugano Living Lab) viene meno però una certa veracità, uno spirito più profondo che sta sotto la superficie, come una brace che riscaldi con la sua lenta sedimentazione la vita quotidiana di una città che rischia l’anonimato, per quando «grande» e moderna possa dirsi.