Le presidenziali, Martin Luther King e un sogno che rischia di rimanere tale

«Questa estate torrida del legittimo malcontento non passerà finché non ci sarà un autunno rinvigorente di libertà e uguaglianza». Ieri gli Stati Uniti hanno festeggiato i 60 anni da quando, il 28 agosto 1963, Martin Luther King Jr. pronunciò queste parole in occasione della sua "Marcia su Washington per il lavoro e la libertà". Allora, di fronte a 250 mila persone, all'ombra del Lincoln Memorial, il pastore e attivista aveva affermato: «I have a dream (Ho un sogno). Sogno che, un giorno, questa nazione si sollevi e viva il vero significato del suo credo: "Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali". Sogno che i miei quattro figli vivano, un giorno, in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per ciò che la loro persona contiene». Scolpita nel marmo bianco della Georgia, l'alta statua (quasi 6 metri!) di Abraham Lincoln non poteva che benedire — con uno sguardo severo ma rinfrancante — quello che sarebbe divenuto uno dei discorsi più celebri della storia americana e non solo.
È proprio al 16. presidente americano, guida dell'Unione e campione dell'abolizionismo, che Martin Luther King fa riferimento all'inizio del suo capolavoro di retorica: «Cent'anni fa un grande americano firmò il Proclama di emancipazione: un faro di speranza per milioni di schiavi bruciati dalle fiamme dell'ingiustizia». Qualcuno, con la mente rivolta ai politici contemporanei, valuterà strana la sincera ammirazione afroamericana per le opere di un repubblicano. Ma quelli di Lincoln erano tempi diversi. Tempi in cui il Grand Old Party era il partito del Nord, mentre gli Stati del Sud erano guidati verso la secessione proprio da leader democratici. Un'importante inversione di poli, secondo molti analisti, arrivò proprio negli anni di King. Sulla scia delle proteste, l'introduzione del Civil Rights Act prima (1964) e del Voting Rights Act poi (1965) segnò la fine, sulla carta, della segregazione razziale nelle scuole, sui posti di lavoro, nelle votazioni. Il via libera alle leggi, arrivato nel corso della presidenza di Lyndon B. Johnson — democratico e texano! —, portò a quello che viene definito come un fenomeno di riallineamento politico: gli Stati del Sud, storicamente meno attenti ai diritti delle minoranze (eufemismo), si ritrovarono improvvisamente più vicini alle posizioni di Barry Goldwater (candidato del Grand Old Party alle presidenziali del '64) e di altri repubblicani, oppostisi apertamente alle nuove leggi pro-diritti civili.
Insomma, i repubblicani di oggi non hanno un granché da spartire con quelli dei tempi di Lincoln e non è un caso se, da decenni, la comunità afroamericana è strettamente legata al partito democratico. Fa un po' sorridere, dunque, nella sua ingenuità, il maldestro tentativo di Ron DeSantis — governatore della Florida e candidato repubblicano alle presidenziali 2024 — di guadagnare qualche punto presenziando, domenica, alla veglia per le tre vittime (afroamericane) di una sparatoria di massa, l'ennesima, avvenuta a Jacksonville per mano di un suprematista bianco. Troppo poco, specialmente per un politico da tempo accusato, non a caso, di razzismo. Dal gerrymandering delle mappe elettorali (volto a diluire e indebolire il voto afroamericano), alla ridefinizione dello schiavismo nelle scuole della Florida («ha permesso agli schiavi di sviluppare abilità utili»), senza dimenticare il mancato distanziamento dai sostenitori neonazisti che inneggiavano a «Ron». DeSantis, negli ultimi mesi, ne ha combinate troppe e non a caso, a Jacksonville, il suo intervento è stato contraddistinto dai fischi.
Mentre le minoranze si ritrovano oggi a fare i conti con una violenza razzista non dissimile da quella denunciata 60 anni fa da Martin Luther King, la realtà dei fatti appare evidente. L'estate del malcontento continua a protrarsi e la nuova stagione, «l'autunno rinvigorente di libertà e uguaglianza», non è ancora arrivata. Non solo: fra DeSantis, Biden e (ancor peggio) Trump, oggi, nella politica d'Oltreoceano, mancano i nomi giusti, «grandi americani», che possano guidare il Paese verso la completa realizzazione del sogno.
I have a dream. Il sogno dovrà aspettare, probabilmente, ben oltre le presidenziali del 2024. Con il rischio, sempre più, di divenire un'utopia.