Le sfide social tra alibi e argini

Una piccola vita di cinque anni spezzata, una famiglia distrutta, un gruppo di youtuber e l’ipotesi di una sfida da pubblicare sui social. L’incidente stradale avvenuto mercoledì nella periferia a sud di Roma, in cui ha perso la vita un bambino, ucciso in uno scontro fra una Smart – sulla quale viaggiava assieme alla madre e alla sorellina – e una Lamborghini, lascia senza parole. Non solo per l’episodio in sé, quanto piuttosto sui motivi che l’hanno causato.
Dietro, infatti, ci sarebbe una «challenge» dal titolo «50 ore in auto» dei TheBorderline, un gruppetto di ventenni con un seguito non indifferente sul loro canale YouTube. Stiamo parlando di seicentomila iscritti, decine e decine di milioni di visualizzazioni e migliaia di commenti. Video demenziali e privi di qualsiasi tipo di contenuto, come quello architettato l’altro giorno dal gruppo di cinque ragazzini romani: passare, appunto, 50 ore consecutive alla guida di un’auto di grossa cilindrata, alternandosi alla guida. «Erano due giorni che giravano per il quartiere», ha raccontato un testimone.
Due giorni a riprendersi con il cellulare per documentare momento dopo momento la loro stupidità, da dare poi in pasto a file e file di altri ragazzi. Fino allo schianto, forse dopo un sorpasso.
I motivi dietro al dramma sono talmente futili da risultare grotteschi. E sono gli stessi autori a definire la loro «arte», a spiegare il perché di queste sfide. «Ogni singolo euro guadagnato su YouTube verrà speso per portare video assurdi e unici», scrivono sul loro canale. «Non siamo ricchi, ma ci piace spendere per far divertire voi». L’esempio al quale aggrapparsi per sperare di avere successo e notorietà, dicono, è MrBeast, un ragazzo statunitense che su questo tipo di video ha creato una fortuna. Tanto che da quest’anno è il secondo youtuber più seguito al mondo: oltre 160 milioni di iscritti al suo canale, che generano ricchezza vera.
Di fronte al dramma di Roma, l’indignazione è giustamente enorme, perché ci si chiede come sia possibile che la società – o una parte di essa – sia sprofondata così in basso in quanto a valori e superficialità. E subito, gioco invero molto facile, si punta il dito contro i social media. YouTube, TikTok, Instagram e via discorrendo. Alcuni arrivano a chiedere una regolamentazione precisa, come la responsabilità diretta delle aziende per casi simili. Una reazione di pancia che, pur comprensibile visto ciò che è successo, misconosce il fatto che i social hanno solo potenziato certe azioni deleterie. Senza andare troppo lontano, il genere sfida video demenziale esiste da anni e la serie Jackass, che spopolava all’inizio degli anni Duemila, ne è solo un esempio. E anche in quel caso – per emulazione – ci sono stati morti e feriti. Pur senza social media.
Le reti sociali, ancora una volta, fungono quindi da comodo alibi. Il problema è molto più profondo, e non c’è regolamentazione che tenga: non bisogna lasciare i giovani in balia di loro stessi. La giungla dei social è qui per rimanere, e sta a noi – ai genitori, alle famiglie, alla scuola – dotare i nostri ragazzi degli strumenti necessari per difendersi da ciò che vedono quotidianamente sui loro telefonini e dai pericoli che ne conseguono. È l’educazione, digitale e non solo, la chiave per leggere un mondo velocissimo nella maniera più corretta possibile, ponendo confini precisi. Un lavoro difficilissimo, ma quanto mai indispensabile.