L'editoriale

L'ordine dei BRICS non prevede il dollaro

Il blocco economico riunitosi questa settimana a Kazan su iniziativa della Russia ha messo sul tavolo il superamento del dominio del biglietto americano
Generoso Chiaradonna
25.10.2024 21:45

Possono essere fastidiosi e antipatici finché si vuole, ma non possono essere accantonati riduttivamente come una sorta di quantité négligeable. Non lo sono né in termini economici e commerciali, né in quelli politici. La conferenza dei BRICS di questa settimana a Kazan, nella repubblica russa del Tatarstan, ha mostrato al resto del mondo che c’è chi ha una visione di sviluppo, di sicurezza e di cooperazione diametralmente opposta a quella sbrigativamente definita occidentale. Per semplificare: i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, a seconda dei punti di vista. Eppure, sarebbe sbagliato liquidare la passerella di leader più o meno autocratici e poco ortodossi fotografati al fianco di Vladimir Putin come folclore o personaggi secondari di un ipotetico sequel di Guerre Stellari. Tranne la Russia a causa delle sanzioni internazionali per l’aggressione all’Ucraina del 2022, gli altri membri fondatori del BRICS sono ampiamente legati alle dinamiche economiche globali. Anzi, sono stati uno dei motori della globalizzazione agli inizi degli anni 2000 con soddisfazione soprattutto da parte di imprese e governi occidentali - USA in testa - che hanno sorvolato molto sul rispetto dei diritti umani che non sono certamente il piatto forte di questi regimi. Vediamo qualche dato per inquadrare meglio il loro peso specifico.

Formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, il gruppo BRICS rappresenta una parte significativa dell’economia globale, con un’influenza crescente soprattutto negli ultimi anni. Contribuiscono a circa il 31% del PIL mondiale (dato del 2023), una percentuale in crescita. Questa quota si avvicina o addirittura supera quella dei paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti). La Cina è di gran lunga l’economia dominante del gruppo, contribuendo alla maggior parte di questo PIL. Inoltre, rappresentano oltre il 40% della popolazione mondiale, con un’enorme base di consumatori in rapido sviluppo, soprattutto in Cina e India. Questo è un grande vantaggio per il blocco, poiché il potenziale di consumo e sviluppo interno rimane altissimo e attrattivo per gli investimenti internazionali. L’anno scorso, infine, il gruppo originario è stato allargato a Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. Altri 18 Paesi hanno chiesto di aderire all’organizzazione, dall’Arabia Saudita al Vietnam passando per la Bielorussia, Cuba, Venezuela e Nigeria. L’Argentina, altro Paese candidato, ha deciso di non entrarci all’ultimo momento per decisione del suo eccentrico presidente Javier Milei. Ma c’è di più. Sono ricchi di risorse naturali strategiche: petrolio e gas (Russia e Brasile), minerali e metalli rari necessari per l’elettrificazione dell’economia (Cina e Sudafrica) e produzione agricola (Brasile e India). Questo li rende non solo influenti nei mercati delle materie prime, ma anche importanti attori nella definizione dei prezzi globali di risorse energetiche e agricole. Insomma, se i BRICS una ventina di anni fa erano visti da occidente solo come economie emergenti ricche di materie prime e potenziali ampi mercato di sbocco oltre che produttori a basso prezzo, non lo si può fare oggi che rivendicano - è questo, in sintesi, ciò che è emerso a Kazan - un maggiore peso geopolitico. Le crescenti tensioni tra Occidente (USA e Unione europea, fondamentalmente) e Cina, per esempio o con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, fanno sì che altre economie emergenti vedano il blocco come un veicolo di politiche estere più indipendenti. Un modo, opinabile finché si vuole, per controbilanciare il peso occidentale a livello globale. Una sorta di ritorno alle fratture generate dalla guerra fredda e mai rimarginate. Anche il ragionamento attorno alla «de-dollarizzazione», ovvero la riduzione del peso della valuta statunitense nel commercio internazionale, è un’altra leva usata a cadenza regolare dai BRICS per ribadire la loro indipendenza.

L’idea di usare proprie valute o addirittura una sorta di valuta comune alternativa al dollaro è ricomparsa anche a Kazan ed è la Russia a spingerla soprattutto in chiave anti-sanzioni, come spiega l’Economist di questa settimana. Un sistema di pagamenti BRICS consentirebbe «operazioni senza dipendere da coloro che hanno deciso di trasformare in armi il dollaro e l’euro», ha affermato il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Ecco, quindi, l’idea de «BRICS Bridge» proposta dalla Russia. Non si tratta di una valuta, ma di una piattaforma digitale a disposizione delle banche centrali degli aderenti e mutuata – ironia della sorte - da un progetto della Banca dei regolamenti internazionali (BRI) chiamato «mBridge» teso a velocizzare i pagamenti internazionali e contemporaneamente a ridurre al minimo i costi di transazione. I Paesi occidentali, dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, hanno congelato oltre 282 miliardi di dollari di attivi finanziari russi detenuti all’estero. Inoltre, il sistema bancario di Mosca è stato scollegato dal traffico dei pagamenti SWIFT. Il desiderio dei paesi ostili agli USA di abbandonare il dollaro è crescente; lo testimoniano gli acquisti di oro da parte delle loro banche centrali. Sono tutti segnali che qualcosa attorno al sistema del dollaro sta cambiando.