Luoghi comuni
Tra le preziosità librarie che sono state esposte nelle scorse settimane alla Biblioteca Salita dei Frati, nell’ambito della mostra dedicata alla collezione di Giovanni Maria Staffieri, la mia personalissima preferenza va a un’edizione dei Promessi sposi stampata a Orino dalla Tipografia Andreoli nel 1838. Non era ancora uscita la cosiddetta “quarantana”, cioè la versione definitiva del capolavoro di Alessandro Manzoni con le illustrazioni di Francesco Gonin, ma oramai non si contavano più le edizioni non autorizzate del romanzo più fortunato, e amato-odiato, della letteratura italiana. Vantandosi, come spesso fanno i Comuni grandi e piccoli, di avere ospitato una tipografia clandestina negli anni cruciali del Risorgimento, la municipalità di Orino Valcuvia, in provincia di Varese, alla fine degli anni Cinquanta fece posare una targa commemorativa sulla facciata del proprio Palazzo Civico: «La Tipografia Andreoli di Orino / in fraterni rapporti concorde / con la più celebre di Capolago / stampò nel 1838 / una rara edizione dei Promessi sposi / ed in altri anni del duro dominio straniero / pochi ma nobili libri / a ravvivare le fedi e le speranze / nell’Italia futura». Per l’occasione, a cento anni esatti dall’Unità d’Italia, si organizzarono anche degli eventi a tema, salvo poi dover mettere via in fretta e furia i gagliardetti e la fanfara quando Adriana Ramelli, direttrice della Biblioteca cantonale di Lugano e grande esperta di edizioni manzoniane, fece notare con garbo che quel Comune del Varesotto non c’entrava proprio nulla, perché di Orino ce n’era un altro, in territorio di Montagnola, dove la tipografia aveva in effetti operato nei pochi ma gloriosi anni della sua storia.
Chissà se a Orino (Valcuvia) se la ricordano ancora, questa incredibile cantonata, da sussurrarsi con le orecchie basse per le strade del paese; e chissà se invece a Orino di Montagnola qualcuno continua a sorriderne sotto i baffi, ostentando malcelata fierezza. Nonostante tutto non riesco a biasimare troppo i valcuviesi, perché sono inciampati – mossi da comprensibile amor di patria – in uno dei tantissimi topo-omonimi che uniscono come una rete i due lati del confine (nel loro caso, distanti una ventina di chilometri). Chi infatti saprebbe dire a colpo sicuro da che parte stanno Gudo, Cornaredo, Vigana, Moncucco, Boffalora, o ancora Roveredo, Rovello, Sala, Arosio, Monticello... Sono tutti nomi che esistono contemporaneamente di qua e di là, uniti da comuni radici linguistiche ed etimologiche, latine (come vicus) o longobarde (come sala), e dal fatto di avere percorso un bel pezzo di strada assieme, fino alle conquiste svizzere ai danni del ducato visconteo-sforzesco. Suggerirei di fare tesoro di questa consapevolezza toponomastica ogni qual volta ci apprestiamo a varcare il confine diretti a sud, per esempio per fare la spesa: un diritto acquisito che non si dovrebbe troppo criticare, come spesso accade, perché non c’è scritto da nessuna parte che al ticinese tocchino soltanto le grane del vivere ai margini dell’Elvezia, e nemmeno un vantaggio (con il giusto rispetto naturalmente per l’economia interna, ma anche con la libertà di fare un po’ di panachage del carrello, ogni tanto). E a proposito di vantaggi, sembrerebbe essersi stabilizzato – quindi in pratica è in calo – il numero dei frontalieri, quella massa umana che ogni giorno sfila nelle nostre strade rendendole a tratti impraticabili, con tutti gli impropéri che ne conseguono; ma che negli intervalli tra un insulto e l’altro lavora attivamente in ospedali, case anziani, scuole, e contribuisce a tenere bassi oltre agli stipendi (purtroppo) anche i costi di produzione delle aziende locali. Se è inutile pensare di riuscire a trovare la quadra, nemmeno nell’epoca dei protezionismi alla Donald Trump, cerchiamo almeno di tenere vivo un sentimento di umana comprensione per quelle persone che ogni giorno partono, sostano e ritornano in luoghi che si chiamano da secoli allo stesso modo, parte di una stessa storia.