Pena di morte, perché il Papa ha cambiato il Catechismo

DI CARLO SILINI - Con la modifica del Catechismo della Chiesa cattolica che da ieri condanna senza eccezioni la pena di morte (vedi servizi a pag. 3), qualcuno potrebbe pensare a un'altra uscita «buonista» del Papa che predica la misericordia contro tutto e contro tutti e si accoda al coro delle ONG e di tutti quegli organismi che lottano alla cieca per la difesa dei diritti umani, anche quando riguardano persone che li violano bellamente. Errore. Certo, il rifiuto totale delle esecuzioni capitali rappresenta un tentativo di smarcarsi dalle tentazioni giustizialiste oggi molto più che striscianti. Ci sono quelli che plaudono alle iniezioni letali per i terroristi o per i pedofili. E, scendendo qualche gradino nella scala della regressione sociale, ce ne sono altri che prendono un presunto malfattore e l'ammazzano di botte per strada perché secondo loro non merita rispetto (è successo qualche giorno fa in Italia). La Chiesa non può far finta di non vederli ed è normale che provi ad elevare il tono etico del discorso sul significato delle pene e sul valore intrinseco della vita di tutti, anche dei criminali. In questo si affianca, senza dubbio, alla giurisprudenza civile che vede nella pena non solo un mezzo punitivo, ma soprattutto uno strumento correttivo, idealmente volto al recupero di chi ha sbagliato e non alla sua estirpazione dalla storia umana., neanche fosse un'erbaccia.
La scelta del Papa, tuttavia, non è un adeguamento ai proclami garantisti di oggi, piuttosto un ritorno alla disciplina e alla dottrina della Chiesa delle origini, come spiega a pag 3 don Sandro Vitalini, ricordando che allora «non era neppure pensabile che un fratello uccidesse un altro fratello», visto poi che i primi ad essere giustiziati, e nei peggiori dei modi, erano i cristiani stessi.
E allora perché si è dovuti arrivare al 2 agosto del 2018 prima che la Chiesa calasse senza remore la sua condanna assoluta alla pena di morte? Con ogni probabilità per due ragioni. La prima è d'ordine psicologico. Non è così semplice per un'istituzione che nei secoli passati ha benedetto i roghi degli eretici e la condanna a morte delle cosiddette streghe, proclamare come se niente fosse che le sentenze di morte ledono la dignità dei condannati e contraddicono il messaggio del Vangelo. C'è un comprensibile imbarazzo storico che accompagna la Chiesa cattolica quando ripensa al proprio passato. Solo i coraggiosi «mea culpa» avviati negli ultimi decenni l'autorizzano ora a osare l'impensabile: la condanna a posteriori dei propri errori pregressi. Ci voleva un Papa della tempra di Wojtyla per osare tanto, al tempo del Giubileo. E l'ha fatto. Chapeau. Rivedere la dottrina prima di questa dolorosa assunzione di responsabilità sarebbe suonato ipocrita. Oggi, invece, è del tutto legittimo.
La seconda ragione riguarda la dottrina di Roma sull'inviolabilità dell'esistere. Non pochi osservatori, non solo laici, hanno messo in evidenza un certo squilibrio degli insegnamenti cattolici riguardo i vari ambiti che toccano la difesa della vita. Coma mai, si sono chiesti, la Chiesa non tollera eccezioni quando si tratta di tutelare la vita nascente dall'aborto o la vita nel suo tratto finale dall'eutanasia e invece «non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte» quando si tratta di tutelare la vita di un condannato? Se si afferma l'assoluta dignità della vita, sempre e ovunque, la vita di un embrione o di un malato terminale non vale quella di un condannato a morte?
La «piccola» modifica del testo del Catechismo risponde quindi anche ad un criterio di coerenza dottrinale riguardo l'intangibilità e la dignità della vita umana in ogni sua fase e in qualsiasi circostanza.
Papa Francesco tira insomma le conseguenze di un cammino iniziato ben prima di lui. Avviato da un Concilio, da altri Papi, dal senso dei Vangeli e dal messaggio di un Dio condannato a morte più di duemila anni fa.