Il viaggio

Quel viaggio in Polonia nel cuore della notte

Il racconto in prima persona di Aaron Rezzonico, partito dal Ticino assieme a un amico estone
Aaron Rezzonico
29.03.2022 12:23

Amo la notte. La amo e la temo contemporaneamente. La amo per la quiete che emana, per i ricordi legati a essa, per le meravigliose uscite di corsa in notturna sulle nostre belle montagne sotto cieli stellati o per i voli sopra l’Atlantico dove le aurore boreali ti fanno sognare a occhi aperti. Temo invece l’oscurità per un unico motivo; la capacità del buio di spalancare porte interiori che conducono nei pensieri più reconditi, nelle emozioni più incontrollabili e nei dubbi più profondi. Pantani irrazionali, sabbie mobili, trappole mentali dalle quali se ne esce solamente all’alba.

In questi meandri notturni la guerra in Ucraina ha fatto proliferare nella mia mente molte perplessità, dubbi, paure ed emozioni molto contrastanti. Non ho mai sopportato le ingiustizie e la violenza, i soprusi e i bulli e questa inutile prova di forza rappresenta tutto quanto la nostra società civile aborrisce. Sono stati messi a nudo in pochi giorni errori strategici enormi, la sudditanza europea nel campo energetico e delle materie prime, i legami malsani tra politica ed economia, l’incapacità dell’essere umano di non ricadere nelle stesse dinamiche che lo hanno condotto più volte sull’orlo del baratro e la mancanza di volontà di smetterla di fare affari con regimi totalitari. Si è poi assistito a un balletto mediatico tra gli Stati Uniti che con informazioni concrete avvisavano dell’imminente attacco e l’inefficienza di una risposta preventiva concreta da parte dell’Europa, con la Russia che parlava di isteria occidentale negando qualunque intenzione bellica. Tutte responsabilità che andranno prese in considerazione quando sarà il momento di scrivere la storia.

Riconosco l’impossibilità di cambiare il corso delle cose ma non posso nemmeno girarmi dall’altra parte e far finta che quello che capita non mi stia tangendo. Le immagini di donne e bambini in fuga toccano le corde giuste e decido di recarmi in Polonia (come peraltro stanno facendo molti concittadini) per portare un contributo infinitesimale e forse anche per lavarmi la coscienza. Un caro amico si offre di accompagnarmi. Oleg è un cittadino estone, un grande lavoratore che ha vissuto sotto il regime sovietico quando le Repubbliche Baltiche erano dei satelliti di Mosca. Ora vive a Hong Kong ma ha mantenuto un legame affettivo in Svizzera, con un pied-à-terre in Ticino, dove pochi anni fa aveva creato una sua ditta di autonoleggio. Partiamo di notte per evitare il traffico, con l’intento di arrivare in Polonia il giorno dopo verso mezzogiorno. Quindici ore filate di guida attraverso strade che in parte conosciamo ma che ora andremo a percorrere con uno spirito diverso. L’oscurità, calcoliamo, dovrebbe finire verso le sei del mattino e dobbiamo quindi trovare il sistema di guidare senza addormentarci al volante finché il sole non farà la sua apparizione. Ci diamo spesso il cambio alla guida, fermandoci solo per un caffè e per il carburante i cui prezzi, altra conseguenza dell’aggressione russa, sono alle stelle dappertutto. Il mio accompagnatore mi racconta di quando, nel lontano 1985, durante l’autunno fu chiamato a prestare servizio nell’Armata Rossa; allora il segretario generale del partito comunista era Michail Gorbaciov. Due anni di servizio ininterrotto di cui i primi sei mesi di istruzione in una base militare vicino all’attuale Ucraina e poi la trasferta in nove giorni di treno presso Cita, capoluogo a est del Lago Bajkal in un avamposto sperduto nella steppa a controllare il confine sino-russo. Avendo vissuto l’occupazione comunista sulla sua pelle, è molto sensibile al tema della guerra in Ucraina ed è motivato nel dare aiuto dove può farlo.

Dopo aver attraversato l’Austria nelle tenebre entriamo all’alba, da sud, nella Repubblica Ceca. La piccola cittadina di Mikulov e tutta la zona circostante sono conosciute per l’ottimo vino. Ho dei ricordi sportivi in questa zona avendo partecipato a una gara podistica alcuni anni fa. Continuiamo spediti verso est, passando nella città di Ostrava per poi entrare in Polonia in direzione di Cracovia, la città di Giovanni Paolo Secondo. La strada scorre veloce, in mezzo a campagne bellissime e ai visibili segni che i miliardi dell’Unione Europea, almeno da queste parti, non sono andati sprecati. Autostrade in perfette condizioni, ponti moderni integrati perfettamente nel paesaggio, segnaletica abbondante e chiara; non si trova nulla da eccepire.

Non posso fare a meno di pensare che a un paio di ore di auto da questo luogo di riflessione e pace, si sia scatenata una guerra fratricida della quale l’Europa e il mondo non avevano bisogno
Aaron Rezzonico

Arriviamo a destinazione alle dodici in punto e dopo qualche spiegazione riusciamo a scaricare la merce che portiamo. Oltre due quintali di barrette energetiche sportive che speriamo possano dare sostentamento alle persone in fuga o ai soldati che difendono la propria patria al fronte.

L’idea iniziale era quella di riposare e ripartire l’indomani ma veniamo informati che alcuni profughi, avvisati del nostro arrivo, ci stanno già aspettando. Nonostante la stanchezza non ce la sentiamo di andare a dormire comodamente mentre altri stanno aspettando in condizioni difficili. La decisione di ripartire subito è ormai presa. Abbiamo un paio d’ore libere nelle quali ci sdraiamo sui sedili del furgone, giusto per rilassarci un attimo. Il monastero presso il quale ci troviamo, ci dicono, era uno dei luoghi preferiti da Papa Woytila. Si trova ad ovest di Cracovia, sul fiume Vistola che è il corso d’acqua più lungo del paese e lo attraversa da sud a nord. Vi regna una calma surreale; alcuni turisti scattano fotografie e visitano la chiesa con il piccolo negozio di souvenir che vende un mix di crocifissi, prodotti locali e immagini sacre.

Non posso fare a meno di pensare che a un paio di ore di auto da questo luogo di riflessione e pace, si sia scatenata una guerra fratricida della quale l’Europa e il mondo non avevano bisogno. Incredibile quanto un concetto astratto come quello di un confine possa fare la differenza per molte persone. Un’entità invisibile, immaginaria, che esiste solamente nella testa delle persone ma che ha l’assurda capacità di far vivere chi si trova da una parte e di far morire chi si trova sul lato opposto. Non vi è nessun merito a nascere in un luogo piuttosto che in un altro. È solamente fortuna e in quanto tale un simile privilegio non dovrebbe dare il diritto a nessuno di rifiutare aiuto chi si trova nel momento e nel posto sbagliato della storia umana.

Mi rallegro ulteriormente di poter dare un minimo contributo e finalmente due ragazze in fuga ci raggiungono. Alcuni bagagli, una gatta in una gabbietta e una vita lasciata alle loro spalle. Ci muoviamo verso il centro di Cracovia per recuperare due famiglie ma arrivati sul posto ci rendiamo subito conto che non ce la faremo a caricare tutti quanti. Dieci persone, un gatto e una montagna di borse e valigie, in un van da nove posti… impossibile. Carichiamo tutti lo stesso e ritorniamo all’abazia dove riusciamo a trovare una camera per quattro di loro che resteranno uno o due giorni in più prima che qualcuno passi a prenderli e li porti verso il loro nuovo futuro.

Noi ci mettiamo in strada a pomeriggio inoltrato con il nostro carico umano, i nostri pensieri e la certezza che occorra fare di più per aiutare queste persone. Attivo il wi-fi del mio cellulare per dare modo a queste persone di contattare i propri cari durante il lungo viaggio. Di tanto in tanto mi giro per vedere come vanno le cose sui sedili posteriori e incrocio sguardi persi, increduli, occhi che scrutano il paesaggio che scorre attorno a loro, consci dell’inesorabile allontanamento da ciò che amano, dai loro affetti, dalle loro cose, dalle abitudini e dalle certezze che fino a qualche settimana fa sembravano infrangibili. Esseri umani trascinati in un turbine di eventi che li scaraventa tra la paura di non rivedere mariti, padri, fratelli e la speranza che possano risvegliarsi da questo incubo in una vita nuova. Alcuni scelgono la Svizzera come destinazione per raggiungere amici o parenti, altri per puro caso, salendo semplicemente a bordo di un torpedone qualunque. Da cittadino sono orgoglioso di poter assistere nel mio Paese a un movimento di solidarietà e di generosa accoglienza che non discrimina, che apre le porte invece di chiuderle, che è inclusivo invece che esclusivo e che getta le basi per un arricchimento culturale della nostra storicamente plurietnica nazione. Mi colpisce molto la determinazione ucraina nel voler vincere questa guerra perché, dicono, la cosa più importante è tornare a casa il prima possibile. Mentre sfrecciamo sulle autostrade a sud di Praga (altra capitale martoriata dall’invasione dell’allora Unione Sovietica e dalla quale molti profughi arrivarono in Svizzera), mi assale un pensiero. Mi chiedo come mai con i profughi della guerra in Siria non vi sia stata la stessa reazione di cordoglio e di sostegno alle vittime o la condanna così compatta della leadership mondiale. In fondo a bombardare la popolazione civile era proprio lo stesso esercito che bombarda l’Ucraina. Il capo di stato corso in aiuto a un dittatore è lo stesso che ora si accanisce contro un governo democraticamente eletto. Quali sono stati gli elementi per i quali, ora, centinaia di migliaia di persone siano incastrate in un limbo di campi profughi su isole sperdute, sfruttati dalla criminalità, costretti a traversate in gommone del Mediterraneo o usati come pedine sul confine Bielorusso-Polacco? Forse che la diversità culturale sia molto più ampia? Forse che le immagini che ci pervenivano mostravano più uomini che donne e bambini? Forse la paura che tra di essi si nascondessero dei potenziali terroristi? O semplicemente (e tragicamente), mettiamo a tacere la nostra xenofobia latente solamente perché questa guerra, se sfuggisse di mano, ci coinvolgerebbe direttamente? Non so darmi una risposta ma mi riprometto di essere più attento e sensibile anche a quanto succede fuori dal nostro giardino. In fondo, la morte e la sofferenza, la povertà e l’assenza di un futuro sono per chiunque un ostacolo a una vita piena. Non è possibile pensare che chi vive in condizioni simili, ovunque ciò accada, non cerchi una redenzione ed è anacronistico ritenere che la chiusura delle frontiere risolva il problema.

Il viaggio continua e i nostri passeggeri si addormentano, sopraffatti da tanta tensione, dalla fatica e da emozioni fuori controllo. In fondo portano sulle spalle un bagaglio enorme, carico di sofferenza, che pesa come un macigno. Anche per noi guidatori la notte, la seconda senza chiudere occhio, è durissima. Ci alterniamo alla guida e cerchiamo di dormire a turni ma la scomodità è tale da precludere un vero riposo. Ma sappiamo che l’alba ci darà conforto e attraversiamo il confine svizzero proprio mentre sorge un sole nuovo, carico di speranza e che illumina le cime innevate delle montagne di casa nostra. Nessuno di loro è mai stato qui e sebbene siano molto provati, l’impressione è quella di chi si sente a proprio agio, al sicuro e questo ci conforta. Nei pressi della galleria del San Bernardino ci fermiamo per consumare con loro una piccola colazione. L’oste ci dice con grande orgoglio che anche nel loro villaggio di pochi abitanti, due settimane fa, è arrivata una famiglia ucraina e i loro bambini iniziano già a parlare lo svizzero-tedesco. Sorrido, pensando che in fondo, anche se il mondo sta andando a catafascio, l’umanità non ha ancora cessato di esistere completamente nei cuori di molte persone.

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