Se la COP si limita a vivere il presente
Poteva andare meglio, ma poteva anche andare peggio. «Siamo molto delusi, ma abbiamo almeno evitato un passo indietro rispetto a Glasgow». La posizione svizzera, qui riassunta nelle parole del capo delegazione Franz Perrez, è quella di molti altri Stati del Nord del pianeta. La ritroviamo anche nelle dichiarazioni di Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, quando sottolinea che la COP non ha affrontato la questione della riduzione delle emissioni. Ha però, perlomeno, trovato in extremis un’intesa sui loss and damage. «Un’intesa che non è una risposta alla crisi climatica». È semmai un atto di buon senso, un’apertura al dialogo tra emisferi. Nulla più, anche perché al momento è pura teoria. A Sharm el-Sheikh non sono stati fissati vincoli, ma anche a questi livelli si ragiona per gruppi di lavoro, per comitati. La pratica dovrà essere fissata attraverso altre trattative, altra diplomazia.
Difficile accontentarsi. Difficile pur nella consapevolezza del momento in cui questa COP - l’edizione numero 27 - è stata affrontata, all’interno di un contesto influenzato da tensioni e paure globali. Un contesto che non deve però diventare alibi all’immobilismo. Anche perché, se decidiamo di rimanere immobili, sappiamo quale destino ci attende. Lo ha esplicitato l’UNEP - il Programma dell’ONU per l’Ambiente - solo qualche giorno prima dell’inizio dei lavori. Il suo rapporto sul gap delle emissioni di gas (Emission Gap Report) ha chiarito che, senza un ulteriore rafforzamento delle politiche in vigore, il riscaldamento globale non rimarrà contenuto entro gli 1,5 gradi, ma potrebbe raggiungere la soglia dei 2,8 gradi entro fine secolo. Una traiettoria già segnata, insomma, per un mondo che non può accettare di limitarsi a vivere il presente.
Se il fondo riparatore a perdite e danni (loss and damage, appunto) - causati dal cambiamento climatico - in favore dei Paesi più vulnerabili è «soltanto» una questione di soldi, l’abbandono dei combustibili fossili è qualcosa di molto più complicato. Certo, alla fine anche quella è una questione di soldi, ma anche di equilibri politici e di potere. Intanto, gli obiettivi fissati a Parigi si allontanano sensibilmente, al punto da rendere sbiadito il ricordo dell’entusiasmo generato allora. Era il 2015. Passati sette anni, la sensazione è che il tempo non sia stato sfruttato fino in fondo. E che il futuro ideale stia svanendo, lasciando spazio ai nostri peggiori incubi. Da qui l’urgenza nelle dichiarazioni del giorno dopo.
Se la presidenza egiziana della COP non ha convinto, non è facile guardare con ottimismo al 2023, quando a ospitare la conferenza sarà Dubai. Perlomeno però, entro il prossimo novembre, il Nord del mondo ha promesso di rendere operativo il fondo destinato all’emisfero Sud. Un bel test a cui sono chiamati i Paesi economicamente trascinatori, anche perché in gioco c’è un ritrovato - rilanciato, meglio - rapporto di fiducia con quelli in via di sviluppo. Un test che presenta, sin dal via, alcuni ostacoli ben visibili, a cominciare dalla posizione della Cina. Paese considerato in via di sviluppo ma la cui economia è seconda solo a quella degli Stati Uniti. La Cina è pure il più grande inquinatore mondiale - ieri ha sottoscritto un accordo con il Qatar per la fornitura di GNL sui prossimi 27 anni! -. Insomma, chi potrà reclamare una parte del fondo? E chi dovrà pagare? E quanto? La strada appare, anche in questo caso, in salita.
E alla fine, consci che poteva andare meglio ma pure peggio, a farsi largo è un senso di impotenza, tra troppe chiacchiere e le solite false soluzioni. Finché non si fisseranno seri obiettivi in termini di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, sarà difficile credere ancora che a fermare il riscaldamento globale possa essere davvero questa pavida forma di diplomazia chiamata COP.