Se preghi per la pioggia metti in conto il fango

Ci sono parecchie buone ragioni per pretendere dalla politica un miglior controllo dei costi nel sistema sanitario. Perché dall’evoluzione dei costi (legata, sia ben chiaro, anche al consumo di prestazioni) dipende quella dei premi di cassa malati, che aumentano in misura superiore ai salari; e perché non si vede una fine di questa divaricazione. Perché in un sistema di riconosciuta qualità, ma nel quale persistono inefficenze, sprechi e incentivi negativi, esiste un buon potenziale di risparmio. Perché il sistema, da solo, non pare in grado di riformarsi. Le riforme incontrano mille ostacoli e procedono al rallentatore; ci sono voluti quattordici anni per condurre in porto il finanziamento uniforme delle prestazioni stazionarie e ambulatoriali, che tra l’altro sarà sottoposto a referendum. Perché la ricerca di soluzioni è condizionata dalle pressioni contrapposte esercitate dagli attori politici nazionali e cantonali, dagli assicuratori e dalle lobby dei fornitori di prestazioni. Perché a dispetto dei proclami, in diversi frangenti l’azione politica si rivela inconcludente o esitante, come nel caso del nuovo tariffario medico che viene sempre rinviato. L’iniziativa popolare del Centro per un freno ai costi ha quindi diversi meriti. Per la prima volta viene presentata una proposta che va alla radice del problema, mette in primo piano la questione centrale dei costi e richiama chi di dovere alle proprie responsabilità, attraverso un meccanismo che vincola l’evoluzione dei costi riconosciuti dalla LAMal a quella dei salari. La levata di scudi innescata a livello politico e sanitario, mettendo per una volta quasi tutti d’accordo, può prestarsi a una duplice lettura. Primo, è stato effettivamente toccato un punto dolente e quindi la strada è quella giusta. Secondo, la proposta in votazione non è la soluzione adeguata, perché presenta effettivamente, lobby o non lobby, anche grosse controindicazioni. In primo luogo, che è sbagliato collegare unilateralmente l’incremento consentito dei costi alla sola crescita economica e dei salari. All’origine dell’aumento delle spese ci sono anche fattori chiave come l’invecchiamento della popolazione e il progresso della medicina. Se un aumento dei costi giustificato dal punto di vista medico fosse superiore alla crescita dei salari, perché andrebbe limitato? È stato calcolato che se il freno ai costi fosse stato introdotto nel 2000, il 37% delle prestazioni a carico dell’assicurazione obbligatoria non verrebbe più coperto. Di qui l’argomento principale degli avversari, secondo cui il freno ai costi, così come congegnato, diventerebbe l’anticamera del razionamento delle prestazioni e di una medicina a due velocità, dove solo chi ha un’assicurazione complementare potrà continuare ad accedere alle prestazioni, senza finire su una lista d’attesa. Un’esagerazione, come dicono i promotori dell’iniziativa, o una conseguenza inevitabile, come sostengono i contrari? In caso di sì popolare, molto dipenderà da come verrà applicata la modifica costituzionale. Il Consiglio federale dice che «a seconda delle modalità di attuazione» vi è il rischio che trattamenti necessari dal punto di vista medico non possano più essere eseguiti o non possano essere forniti immediatamente. In effetti, visti i tempi brevi concessi dall’iniziativa per trovare soluzioni consensuali (due anni, prima di intervenire dall’alto con misure incisive), non si vede come si possa sfuggire a tagli tariffari su medici e ospedali, con le relative implicazioni. Certo, si può approfittare dell’iniziativa per dare un segnale e fare pressione su un sistema che non è capace di frenare efficacemente la crescita dei premi. Oppure, confidare che il Parlamento la attui con moderazione. Ma se la si prende alla lettera, bisogna anche pensare alle possibili conseguenze concrete. «Se preghi per la pioggia», diceva in un film l’attore Denzel Washington, «il fango va messo in conto».