Test sui viaggiatori cinesi? Una scelta non dovuta ma assennata
La Cina se la passa male, malissimo. Per spegnere le proteste che, lo scorso mese, stavano facendo traballare il trono di Xi Jinping, Pechino ha recentemente ordinato la fine della politica “zero COVID”. Le conseguenze? In un attimo il Paese si è ritrovato ad avere a che fare con milioni di nuovi contagi. Gli ospedali pieni, i crematori in difficoltà. Per la popolazione, sinora a malapena entrata in contatto con il coronavirus a causa delle misure draconiane volute dal Dragone, la ritrovata libertà è pagata a caro prezzo. Riaperti gli aeroporti ai viaggiatori cinesi, ora il “liberi tutti” preoccupa il mondo. Oggi, l’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) ha affermato in una nota che le varianti che circolano in Cina sono «già presenti in Europa e, in quanto tali, non rappresentano un pericolo per la risposta immunitaria dei cittadini UE, i quali hanno livelli di immunità e vaccinazione relativamente elevati». Seguendo questo pensiero, l’Unione europea aveva deciso di non proporre una risposta omogenea alla questione, una presa di posizione che sembra in procinto di cambiare, nonostante le rassicurazioni dell’ECDC. Berna, sinora, aveva seguito l’UE, evitando di reintrodurre l’obbligo di presentare un certificato di vaccinazione, guarigione o test negativo per chi viene dalla Cina. Ma la situazione, aveva sottolineato l'UFSP, «rimane sotto costante analisi».
Sarà. Ma alcuni Stati, molti anzi, sembrano aver abbracciato la filosofia del “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. E per questo pretendono che i viaggiatori provenienti dalla Cina accettino di sottoporsi a un test anti-COVID all’arrivo. È, ad esempio, quanto voluto dalla Francia, che tramite la prima ministra Elisabeth Borne ha spiegato: «Facciamo il nostro dovere proteggendo i francesi. Quando il test risulta positivo, è oggetto di un sequenziamento. Questo ci permette di avere un dato sull'evoluzione del virus. Intendiamo ovviamente garantire che non ci siano nuove varianti».
Una misura, se non dovuta, quantomeno sensata. La scorsa settimana, per fare un esempio, all'aeroporto di Malpensa i test effettuati all’arrivo non hanno portato risultati troppo rassicuranti. Su due voli provenienti dalla Cina, sono risultati positivi rispettivamente il 38 e il 52% dei passeggeri. Positività riconducibili, fortunatamente, a varianti Omicron già conosciute e diffuse in Europa.
Imporre test in entrata solamente a chi proviene dalla Cina è allora una forma di xenofobia? Pechino sostiene di sì. Furente, ha minacciato «contromisure» nel caso in cui le «inaccettabili» restrizioni rivolte esclusivamente ai viaggiatori cinesi dovessero permanere.
Da che pulpito viene la predica, diremmo. Tre anni fa il coronavirus travolgeva il mondo, cambiandolo per sempre. Un dilagare, quello della COVID-19, facilitato dalla totale mancanza di trasparenza del governo cinese. Oggi, i fatti lo dimostrano, Pechino mente ancora. I rapporti ufficiali parlano di poche migliaia di casi al giorno, spesso senza decessi. Ma foto e resoconti dei media internazionali, presenti sul territorio, raccontano un’altra storia. È così sbagliato, ora, prendere precauzioni “extra”? Alcuni Paesi sembrano aver imparato dalla lezione di tre anni fa. La stessa filosofia confuciana, del resto, è chiara. In uno Stato utopico, «va coltivato il buon vicinato». Ma, come la fiducia, anche «l’onestà va promossa».