Un gigante asiatico difficile da isolare
Nonostante il riavvio del dialogo tra Cina e Stati Uniti con il vertice di Bali in Indonesia il confronto tra le due superpotenze non è destinato a concludersi e così pure il tentativo occidentale di rimpatriare gran parte delle attività produttive dislocate nel gigante asiatico e in molti Paesi a bassi salari. Questo fenomeno viene chiamato «reshoring» (ossia il ritorno in patria delle aziende) e ha dato il via all’ipotesi della fine della seconda grande ondata di globalizzazione determinata dall’entrata della Cina nel mercato globale (la prima fu quella che si concluse con lo scoppio della Prima guerra mondiale). Finora questo processo non ha prodotto grandi risultati, sebbene le strozzature negli approvvigionamenti delle filiere produttive all’indomani della pandemia con l’esplosione dei costi dei noli e con la mancanza di componenti essenziali per molti prodotti e nonostante la volontà politica chiaramente espressa dagli Stati Uniti di voler favorire questa tendenza. Evidentemente i venti di una nuova guerra fredda non sono stati abbastanza forti per avviare il rimpatrio delle filiere produttive. I motivi sono presto detti: il trasferimento di queste attività è un processo lungo e molto costoso, in secondo luogo il mercato cinese è talmente grande e redditizio per molte multinazionali da rendere veramente difficile abbandonarlo e in terzo luogo l’idea di un confronto economico e commerciale con la Cina non è condivisa da molti capitani di industria e da alcuni Governi. L’esempio è la Germania che con il recente viaggio del Cancelliere Scholz ha chiaramente sottolineato che non vuole abbandonare la Cina, il cui mercato determina il successo di molte industrie tedesche, da quelle del settore automobilistico a quelle dei macchinari e della chimica. Anzi proprio durante questa visita il colosso tedesco BASF ha firmato il contratto per la costruzione di un impianto petrolchimico del costo di ben 10 miliardi di euro, spiegando che il mercato cinese dei prodotti chimici raggiungerà il 50% delle vendite mondiali. Ma anche negli Stati Uniti non tutti sono concordi nell’isolare il gigante asiatico. I giganti di Wall Street premono per farsi spazio nel mercato cinese e Apple ha deciso di non ridurre la produzione nel Paese di mezzo. E in effetti la decisione di rimpatriare le produzioni non è assolutamente facile. Più facile è rinviare nuovi investimenti diretti nel Paese, come sta già avvenendo.
Inoltre un rapido «decoupling» (disallineamento) tra l’economia cinese e quella americana non provocherebbe solo danni a Pechino, ma anche agli Stati Uniti e potrebbe addirittura provocare una crisi mondiale. Forse anche per questi motivi l’amministrazione Biden ha deciso di giocare un’altra carta: il divieto dell’esportazione dei famosi chips (ossia i semiconduttori), un settore essenziale in molte produzioni (anche quelle militari) in cui gli americani detengono la leadership e i cinesi un forte ritardo. Nel frattempo non bisogna però trascurare alcuni fenomeni che sono in pieno sviluppo, come il decollo dei Paesi del Sud-Est asiatico e dell’Asia meridionale. Infatti, anche a causa dell’aumento del costo del lavoro in Cina, molti imprenditori cinesi stanno investendo in modo massiccio in queste nazioni provocando un forte aumento della loro crescita facendo scrivere al settimanale «The Economist» che il calo del 2% del totale delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti nel periodo tra il 2008 e il 2022 è interamente compensato dalla crescita dell’export cinese verso l’ASEAN, ossia per l’associazione che raggruppa i Paesi del Sud-Est asiatico. Insomma se le tensione geopolitiche rendono incerto il futuro della globalizzazione, per il momento esse ancora non si manifestano chiaramente, anche se per il momento è in corso la trasformazione della «fabbrica» mondiale cinese in una fabbrica dell’intero continente asiatico.