Ricordi e speranze di pace
In questi giorni, tra i più cupi e tragici della nostra storia recente, sono molte le immagini che scorrono nella mia mente di quel lembo mediorientale del Mediterraneo che negli anni ho avuto la fortuna più volte di frequentare e di amare. La prima risale alla metà degli anni Novanta. Era da poco terminata la prima «Intifada» e, incuriosito da quella Gaza di cui avevo tanto sentito parlare, decisi di visitarla. Attivato alla frontiera della Striscia in compagnia di mio figlio che, ancora bambino avevo deciso di portare con me in quella trasferta di lavoro, fui fermato dai militari con stella di Davide. «È pericoloso entrare con una macchina targata Israele», mi dissero indicando la vettura che avevo noleggiato. «C’è il rischio di essere colpiti da qualche sasso e l’assicurazione non rifonderebbe i danni», spiegarono aggiungendo: «meglio procedere a piedi e, dall’altra parte, prendere un taxi». Ma è pericoloso? chiesi. «No, è tutto tranquillo, i palestinesi sono brava gente, anche se sarebbe meglio fare attenzione perché qualche invasato potreste comunque incrociarlo». Al ritorno da quella gita rivelatasi tranquillissima e piacevole, fui bloccato da alcune guardie palestinesi. «Fate attenzione a tornare di là», ci avvertirono. «Attraversando il check point evitate di correre – dissero indicando soprattutto il bambino – e i movimenti bruschi». Ma è così pericoloso? domandai anche a loro. «No, gli israeliani sono tranquilli. Però è bene fare attenzione perché tra i loro soldati qualche testa calda potrebbe esserci». La seconda immagine è più recente, risale a meno di una decina di anni fa. Ed è legata allo splendido lungomare che unisce Tel Aviv alla storica Jaffa e che per lunghi tratti è stato trasformato in un’enorme area svago con verde, spazi attrezzati per attività fisica, giochi dei più piccoli e picnic. Un’area che il venerdì (giorno di riposo per i musulmani) ho visto frequentata da famiglie arabe che banchettavano tranquillamente sotto gli sguardi dei passanti israeliani che, a loro volta, il sabato occupavano gli stessi spazi con modalità pressoché simili. Il tutto in un clima non solo di tolleranza e rispetto ma anche con piccoli ma significativi segnali di interscambio tra le due pur distinte comunità. Due istantanee che contrastano con quelle terribili che da quegli stessi luoghi ci arrivano oggi, stando alle quali quel sottile ma significativo equilibrio che avevo avuto modo di constatare, pare definitivamente spezzato. Equilibrio che, tuttavia, mi auguro possa al più presto ripristinarsi, magari dopo un passo indietro di entrambe le fazioni e, soprattutto, la cancellazione dai vari vocabolari di quella terribile parola, vendetta, sulla quale, la storia insegna, non si costruisce alcunché di positivo e che una volta consegnati i criminali alla giustizia – cosa imprescindibile– andrebbe sostituita con perdono e dialogo. Gli unici elementi grazie ai quali quella che biblicamente è indicata come «Terra promessa» può trasformarsi in tale. Per tutti, indistintamente. E finalmente in pace.