«Così i Jethro Tull hanno attraversato la storia del rock»
Il primo album, This Was, è del 1968. Ma già un anno prima avevano pubblicato un singolo, Sunshine Day. Da allora a oggi è come se fosse passato un secolo, la musica è cambiata, è arrivato il digitale, le nuove tendenze, nuovi gruppi e cantanti. Eppure i Jethro Tull sono ancora lì. Un pezzo di storia, significativa, del rock. E a gennaio è stato pubblicato l’ultimo album, The Zealot Gene. Domenica 27 novembre la band sarà a Lugano (Palazzo dei congressi). La Domenica ha incontrato Ian Anderson, da sempre anima della band.
Partiamo dalla fine: The Zealot Gene è stato un grande successo. È un bel segnale per voi, no?
«Abbiamo incominciato a lavorare al disco Zealot Gene nel 2017, dopo Homo Erraticus nel 2014 e Thick As A Brick Part 2 nel 2012. Poi è arrivato il coronavirus che ci ha fermato e dopo un po’ di attesa ho deciso di finire l’album da solo, senza la band durante l’estate dell’anno scorso. L’LP è stato pubblicato nel gennaio di quest’anno e, nel frattempo, avevo già iniziato il lavoro successivo del quale ho ascoltato a lungo i master».
Quando uscirà il nuovo disco?
«Dovrebbe uscire nell’aprile dell’anno prossimo. Vorrei spiegare un aspetto, che non tutti sanno: per via della passione che la gente ha oggi per il vinile ci sono tempi lunghissimi di attesa per l’uscita di un disco. Ormai sono pochissime le fabbriche di vinile rimaste nel mondo, sono state tutte chiuse 30 anni fa e adesso per pubblicare ci vuole un anno d’attesa».
Per voi è una grande soddisfazione, dopo anni di lavoro, conquistare nuovi fan?
«La realtà è che gran parte dei nostri fan, sia quelli che vengono a vederci dal vivo sia quelli che comprano i dischi, vanno dai 50 anni in su, suppongo che alcuni - dice sorridendo Ian - ascoltino i Jethro Tull dal 1968, ciò vuole dire che hanno più di 70 anni. Però abbiamo visto che l’età cambia in base a certe circostanze».
Quali sono?
«Per esempio se si tratta di un nostro concerto all’aperto d’estate, in qualche Paese mediterraneo è probabile che vedremo fans più giovani. Se è un concerto d’inverno nel nord della Germania, o in un teatro più «classico» allora il nostro pubblico sarà più vecchio. A volte vedo nell’audience famiglie composte da nonno, papà e giovane nipotino! Non è insolito vedere tre generazioni insieme ma resta il fatto che la maggioranza è composta da vecchietti come me!».
È cambiato molto l’approccio nel «fare dischi» nella sua carriera?
«No, non tanto. Noi abbiamo sempre cercato di suonare nello studio nella stessa maniera in cui suoniamo sul palco. All’inizio era l’unica maniera per registrare ma è quello che noi facciamo anche oggi. Avevamo a disposizione sette giorni per le prove e sei per registrare 12 brani».
Lavorate quindi in tempi stretti?
«Noi ci prepariamo molto bene. Io scrivo i pezzi. Mando le demo ai componenti del gruppo. Le demo sono in forma molto semplice ma servono per dar loro un’idea degli arrangiamenti dei pezzi. Poi ci vediamo per le prove durante le quali ognuno offre i propri contributi. Poi, tutto è soggetto a parecchie modifiche una volta che ci mettiamo a suonare insieme nella sala prove. Se le cose vanno bene facciamo due canzoni al giorno, entriamo nello studio e speriamo di registrare due canzoni al giorno anche lì. Pensiamo anche a come suonare dal vivo. A volte correggiamo piccoli errori».
Come avviene la scelta finale?
«Scegliamo fra due o tre registrazioni ma alla fine la procedura è più o meno la stessa solo che oggi la tecnologia è cambiata. Oggi è 24 bit audio digitale mentre anni fa era nastro ad otto piste, poi 16 piste, poi 24 piste. Ma sia nel mondo analogico sia nel digitale la procedura è più o meno la stessa, è solo la tecnologia che è diversa. Io sono abituato sia al mondo digitale sia al mondo analogico. Probabilmente mi trovo meglio nel mondo digitale semplicemente perché oggi tutto sta dentro un computer. Posso stare alla mia scrivania e registrare tutto, il flauto, tutto quanto con un laptop ed una tastiera».
Dunque riesce stare a passo con la tecnologia?
«Sì, ho iniziato nell'82 quando è cominciata l’epoca del digitale. Poi nel 1986 mixavo in digitale, dagli anni ’90 registravo anche io in digitale. Ho sempre cercato di stare al passo con i tempi. Sia per quanto riguarda la tecnologia per il registrare che per le performance dal vivo. Oggi gli show dal vivo sono multimediali, con video e altri strumenti».
Per voi è meglio, avete più stimoli?
«Sì è molto stimolante per un artista. Ci offre molte possibilità in più. Anche se a volte è un grande stress! L’apparecchiatura diventa obsoleta in fretta. C’è sempre da fare upgrade del software. O comprarne nuovi programmi. Sono sempre costretto a mettere mano al portafoglio. Ma è il mondo di oggi! Il mondo della fotografia è lo stesso. Ho delle macchine fotografiche che sono più vecchie di me, che funzionano bene, ma il mondo di oggi della fotografia vuole dire che devi sempre aggiornarti, non solo l’apparecchiatura va aggiornata ma anche i nostri cervelli!».
È come quando compri una macchina, esci dalla concessionaria ed è già vecchia?
«Non saprei (e ride, ndr.), non guido ma so che mia moglie ha passato delle ore nel parcheggio con la sua macchina nuova con il libretto delle istruzioni. È sempre il mondo di oggi. I nostri nonni non sarebbero neanche stati in grado di farla partire».
L’LP Zealot Gene contiene parecchi riferimenti biblici. Lei è religioso?
«Mi considero «spirituale» ma non seguo alcuna religione organizzata. Però leggo fin da giovane vari testi religiosi e sono un grande sostenitore del cristianesimo essendo la religione principale del mio Paese, il Regno Unito, anche se non mi definisco «cristiano». Mi piace il cristianesimo e credo che abbia molto da offrire. Forse è una religione meno «pura» rispetto all’Islam ma il cristianesimo ha qualcosa che l’Islam non ha. Il cristianesimo ha una narrativa, racconta una storia, è più passionale. Ed è anche più seguito. Ma non mi sentirei a posto con la mia coscienza se mi dichiarassi «cristiano» perché non ho fede».
Cosa bisogna avere per aver fede?
«La fede implica certezze e io non ne ho. Semmai credo in "impossibilità" e "probabilità". Quindi io credo che sia molto probabile che ci fosse un Gesù di Nazareth ma un Gesù - il Cristo - non ne sono sicuro. Non mi piace l’idea che ci sia un Dio a cui preghiamo per ottenere «cose», cioè che preghiamo al Dio di Mosè, di Abramo perché ci conceda qualcosa che richiediamo. Non vorrei però passare per predicatore, perché non lo sono. Mi piace stimolare le persone a riflettere. E credo sia la cosa migliore che posso fare».
Che cosa possiamo aspettarci dal concerto che terrete a Lugano nell’ambito di un tour in tutta la Svizzera?
«Potete aspettare quello che volete ma quello che avrete forse non sarà all’altezza delle aspettative (e ride, ndr.). O forse sì! In breve questa è una tournée posticipata dal 2019 in cui ci focalizziamo su alcuni momenti in cui la nostra musica fu definita "Progressive rock" e quindi suoneremo alcuni dei brani più conosciuti dei Jethro Tull e poi ci saranno alcuni momenti in cui suoneremo alcuni pezzi magari meno conosciuti ma che per noi sono stati momenti importanti nella nostra evoluzione verso uno stile meno generico ma più "progressive". Ma tutto questo è rock. È la prima tournée che faccio dagli anni Settanta senza portarmi dietro una chitarra acustica. Questo è un tour rock ma anche con parecchi elementi visivi. Quindi oltre che musica da ascoltare ci sarà anche qualcosa da vedere».