Un vento cromatico ed erotico: ritratti di Sandro Chia
«Conosci il pittore Sandro Chia?». Nella Roma della metà degli anni Settanta, quell’appellativo «pittore» era quasi un dispregiativo: la pittura era stata catalogata come un vecchio arnese, fuori dal tempo. Giorgio Franchetti, grande e appassionato collezionista libero da condizionamenti, restò immediatamente incuriosito. E volle conoscere quest’omone spavaldo, arrivato dalla Toscana, che si era messo a dipingere grandi tele, grandi come gli insoliti eroi che la popolavano. «Era tutto un mondo fantastico ove si incrociano verità e assurdo, luci e splendori che si contrapponevano all’arte concettuale poverista del mucchietto di carbone, del ciuffo di lana propugnati come suprema idea di forma»: sono i pensieri che Franchetti si era annotato. Di Sandro Chia pittore, e dei suoi compagni d’avventura, tutto il mondo si sarebbe accorto poco dopo, nel 1980, quando alla Biennale di Venezia Achille Bonito Oliva aveva presentato quella squadra di artisti, tutti italianissimi, raccogliendoli sotto il nome di Transavanguardia. Sono passati oltre 40 anni e a Chia, il cui vero nome è Alessandro Coticchia, quella definizione di «pittore» calza sempre a pennello. In mezzo ci sono state tante avventure, come la lunga stagione americana, quando aveva aperto uno studio a New York. E che studio!, come ha testimoniato nei suoi «Amarcord» Giancarlo Politi, lo storico fondatore della rivista Flash Art: «Chia aveva acquistato un enorme edificio di almeno cinque piani a Chelsea, dove abitava e aveva creato il suo studio, su due piani immensi, affittando il resto, pensate un po’, a Larry Gagosian, che stava lentamente trasferendosi, da Los Angeles a New York». L’escalation era stata impressionante: nel 1981 il Moma di New York acquisiva dei suoi disegni e le sue opere comparivano in una mostra destinata a segnare una stagione: «A New Spirit of Painting» alla Royal Academy di Londra. Evidentemente la pittura stava vivendo una riscossa… Non a caso la gran parte dei quadri di Chia, e non solo in quelle della prima stagione, hanno come soggetto delle figure maschili presentate come eroi, seppur eclettici. Anzi, eroi eretici… «‘Arte eretica’ è un’espressione che mi piace - spiega Chia - poiché denota una scelta intima, spirituale in alternativa al potere ufficiale costituito e/o alla moda. Compito dell’arte è distinguersi dal conformismo del tempo, spesso decadente e insignificante se non addirittura oppressivo». L’artista ricorre spesso a una metafora per spiegare chi sia il pittore: «È come un imbuto in cui entra il mondo; necessariamente il tutto passa per una strettoia che è costituita dal suo occhio e dalla sua passione. Quel che ne esce è la visione di un ‘esterno’ reso questa volta ‘eterno’». Forse per questo i suoi quadri contengono sempre un qualcosa di gioioso: Giovanni Testori aveva notato le folate «di vento cromatico che investono i suoi eroi, li fanno danzare, provocando un’irresistibile carica di eros e di gioia». Emblematica è una sua grande tela, alta quasi tre metri, del 1983, Il pittore. La figura, che campeggia ieratica occupando l’intero spazio, ha il volto di una statua, mentre il resto del corpo è umano; ha gambe ben piantate per terra e tiene tra le mani un dipinto macchiato da colori informi. O meglio, lo impugna come fosse il suo orgoglioso status symbol. È un’immagine dalle proporzioni monumentali, svuotata però di ogni retorica o intellettualismo. È semplicemente un uomo che ha preso la decisione di essere pittore, accantonando ogni altra possibile decisione alternativa, e quindi ne dà notizia al mondo. C’è un dettaglio che non può sfuggire: sul volto di marmo dell’artista scivola una lacrima, quasi di commozione per aver scelto di affidare il proprio destino alla pittura e alla sua magia. A Chia non fa problema la progressiva conquista di campo delle tecnologie anche dentro l’ambito dell’arte. «Non bisogna dimenticare che la tecnica è parte dell’arte e che l’arte è una tecnica», dice l’artista. «Evidentemente non ho niente contro la tecnologia quando semplifica la vita, purché non si ponga come sostituto della vita e delle relazioni interpersonali. In fondo in pittura tutto ciò che accade sulla tela è virtuale. La prospettiva rinascimentale è virtuale. Aumentare le proprie facoltà sensitive e virtuali è uno degli obiettivi dell’arte. Allargare la coscienza e raggiungere e superare i propri confini è uno dei compiti dell’arte». Tornando a Giorgio Franchetti, va detto che non è stato solo il collezionista della prima ora. Franchetti è anche la persona grazie alla quale Chia ha trovato un suo «paradiso»: il Castello Romitorio a Montalcino, che il barone aveva rilevato negli anni Settanta e che nel 1984 aveva venduto all’artista. Castello Romitorio è un luogo che ha alle spalle una storia millenaria. Era stata prigione per soldati cristiani che non avevano fatto abiura, in epoca romana; nei secoli successivi fu trasformato in monastero; ma quando erano iniziate le dispute tra senesi e fiorentini, per la sua posizione strategica divenne fortezza. Quando Franchetti lo rilevò era ridotto a rifugio per greggi e pastori. Oggi è un gioiello nel cuore di una terra, culla di quel vino, il Brunello, che «arrubina il volto». Chia insieme al castello aveva rilevato anche vigneti, boschi di lecci e gerbidi. L’obbiettivo era subito chiaro: Romitorio poteva tornare a splendere solo se al recupero del Castello fosse abbinato il recupero della sua antica vocazione alla viticoltura. Così è accaduto, grazie al fatto che l’artista ha saputo convertirsi, come lui si autodefinisce, in «vinaiolo-artista»: «Produrre vino con passione, accuratezza e spirito creativo può essere considerato come una delle ‘belle arti’. Si tratta di un’arte di trasformazione collegata direttamente alla natura e all’uomo che dalla natura ottiene nutrimento ed ebrezza. Non a caso Dioniso è il dio del vino e dell’arte». I punti di confluenza tra il vino e l’arte, nel caso di Chia inevitabilmente si moltiplicano, in un mutuo scambio di favori. Prendiamo il caso delle etichette: è lui a disegnarle per i vini prodotti da Castello Romitorio. Nobilitano e impreziosiscono le bottiglie, ma diventano anche un buon veicolo per l’arte. Una finestra che si apre su una clientela innamorata del vino di qualità e che può scoprire le affinità con l’arte. Poi c’è la cantina interrata ai piedi del Castello. All’interno, le opere di Sandro Chia realizzate a Montalcino si alternano a testimonianze artistiche del millennio passato locale e a materiali provenienti dal paesaggio: anfore, pietre recuperate, botti di rovere, sculture, colonne e rovine romane, trouvailles. Queste figure, insieme agli strumenti di lavoro sono lasciati lì quasi per caso, con l’idea che siano pronti per l’allestimento di una mostra. Non c’è una strategia, è il lavoro in divenire, l’arte che si fonde col vino. Al punto che diventa possibile proporre a Chia un gioco: associare una bottiglia a un grande artista del passato. «Alla sua divertente domanda rispondo che fatte le dovute valutazioni per il Brunello, un vino disciplinato da regole antiche e rigorose, tendenti alla perfezione, il nome dell’artista che mi viene in mente è Piero della Francesca. L’altro vino che produciamo in un territorio limitrofo, il Morellino, lo abbinerei a Caravaggio per il colore luci e ombre che lo caratterizza e per la vicinanza a quelle coste sabbiose e selvagge su cui ha terminato la propria vita». Non ci sono solamente opere del padrone di casa a Castello Romitorio: ad esempio c’è un’opera firmata da Andy Warhol con il ritratto di un bambino di quattro anni. È Filippo, classe 1983, che dal 2006 ha affiancato il padre nella conduzione del Castello e della produzione di vino. Artista anche lui, a suo modo, se è vera la convinzione del padre che la pittura quando funziona procede come la natura: nasce e cresce come una fatale sequenza di fatti prescindendo dalle nostre intenzioni. E l’artista stesso non la conosce davvero fin tanto che non appare.