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Una bellezza russa

Slavista e autrice di culto, Serena Vitale ha molto da raccontare
Camilla Baresani
11.09.2021 07:00

Èspassosa e non dimentica mai di evidenziare aspetti umoristici e paradossi, dimodoché anche quando parla o scrive di letteratura russa, di poeti e scrittori passati nelle efferatezze e nelle tragedie del Novecento, finisce per strapparti un sorriso. Vive con un gatto, Ginevro, che, questo si è scoperto solo in un secondo momento, è maschio anziché femmina. Serena Vitale è la più importante slavista italiana, definizione che però è straordinariamente riduttiva. Se le appioppi il più generico appellativo «intellettuale», inorridisce e dentro di sé ti manda al diavolo. «Sono un essere scrivente», dice a chi cerca di definirla.

Oltre a non avere rivali nelle traduzioni letterarie dal russo, oltre alla carriera accademica che ha prodotto torme di ex allievi adoranti - «la cuvée di Napoli: studenti eccezionali» -, Serena Vitale è autrice di libri di culto, romanzeschi benché non siano veri e propri romanzi, libri che hanno creato attorno al suo nome un consistente gruppo di adepti. Il bottone di Puškin, La casa di ghiaccio, A Mosca, a Mosca!, Il defunto odiava i pettegolezzi sono alcuni dei suoi titoli imperdibili. Quando le chiediamo se preferisca tradurre o scrivere la risposta è: «Se si tratta di Mandel’štam, allora preferisco tradurre».

Osip Mandel’štam l’ha spinta a fumare tre pacchetti di sigarette al giorno. La responsabilità va condivisa tra il poeta vittima delle purghe staliniane e Roberto Calasso, proprietario e direttore editoriale dell’Adelphi, purtroppo mancato poche settimane fa. Aveva insistito perché Serena si occupasse di una nuova traduzione di Conversazione su Dante. «Non sono una scrittrice, sono un topo d’archivio» sostiene per completare il proprio ritratto. «Sono una fattografa. Per esempio, ho scritto un libro su Maiakovskij, Il defunto odiava i pettegolezzi. Quando ho iniziato a studiarlo, ho capito che era una persona indifesa come un gattino, e mi sono detta ‘Mo’ a chi lo lascio?’, e mi è scattata la voglia di lavorare a questa specie di indagine». Le chiedo quali autori ha preferito tradurre. «Nabokov, Mandel’štam e Brodskij». E come mai non ci mette la Cvetaeva? «Perché credo che porti male». Per via della sua vita disgraziatissima, un campionario di orrori dell’epoca staliniana? «Perché è una grande ma credo che a me porti male. Ormai ne sto lontana. Sono molto terrona in questo, sono superstiziosa. Ogni volta che ho preso in mano la Cvetaeva o mi è caduto addosso uno scaffale, o è venuto il terremoto, oppure mi sono storta una gamba. Probabilmente è autoidentificazione, ma ormai il mio periodo Cvetaeva è passato.

Mi ha assorbito completamente: lei era grandissima ma poteva distruggere le persone». Come è iniziata la prodigiosa carriera letteraria di Serena Vitale? Sì, certo, le basi, l’eccellente ginnasio di Brindisi e uno zio dalla sterminata biblioteca, ma poi l’incontro con Angelo Maria Ripellino, professore universitario di lingua e letteratura russa, l’autore dell’indimenticabile Praga magica. È tra l’altro a casa sua, che Serena Vitale ha conosciuto il primo marito, il poeta Giovanni Raboni. «Ripellino, il mio maestro, aveva la bellezza del barone siciliano. Elegantissimo, si preparava a lungo le lezioni, ed era un incantatore. Eravamo desolati quando finiva la lezione. Allontanarmi da lui, andare a Milano, per me è stato fondamentale. Il fascino della persona e della sua scrittura era tale che sarei diventata un’inutile replicante.

L’ultima volta che l’ho incontrato era a letto, moribondo, e parlava in tutte le lingue. Un fenomeno di glossolalia: in francese, greco, greco antico, turco... Ero basita». A Ripellino, Serena Vitale deve anche la passione per la letteratura ceca, per Praga, e in fin dei conti anche l’incontro con il suo terzo marito, il pittore Vladimír Novák. Una storia sorprendente come solo a lei possono capitare, di un amore interrotto dall’invasione delle truppe del Patto di Varsavia nel ‘68 e ripreso magicamente (appunto, Praga magica), dopo la Rivoluzione di velluto, nel 2000. A Praga, Serena Vitale aveva cominciato ad andare nel ’66, per i corsi estivi frequentati dagli studenti di Ripellino. «Ho conosciuto i migliori scrittori cechi, e a un certo punto anche Kundera: abitava in una viuzza del centro dirimpetto alla polizia politica. Era già perseguitato. Gli chiesi: ‘Come mai Milan abiti proprio qui?’ E lui: ‘Loro mi spiano e io spio loro’. Questo era il tipo. Adorava la mistificazione e corre voce che quando si è sposato per la seconda volta abbia mandato al suo posto un amico e lui abbia fatto da testimone.

Adesso vive a Parigi ma è irraggiungibile, si è cancellato come se avesse usato una gomma, non vuole che si sappia più nulla di lui. So che è tornato di nascosto in Cechia, dove non lo amano molto mentre adorano Havel, che è stato cinque anni in prigione. Kundera stentano a capirlo». Tra i suoi libri, quale preferisce? «Il valzer degli addii, che ho tradotto. È costruito in modo perfetto: una quadripartizione, un quartetto». Impossibile non chiedere a Serena Vitale del suo secondo marito, il fascinoso Dmitri Nabokov, figlio unico di Vladimir e della moglie Vera Slonim. Minimizza: «Siamo stati sposati per tre anni, solo sulla carta: un matrimonio a Las Vegas, doveva essere il ’92 o ’93. Entri in una stanza, parte la marcetta nuziale, la prima persona che passa viene presa come testimone. Più che altro ero curiosa, ho voluto sperimentare la scena dei film con matrimonio a Las Vegas». Sì, ma era anche bellissimo, e poi cantante lirico, e pilota di auto da corsa, e traduttore poliglotta dei libri del padre: «Però anche quando vidi il figlio di Pasternak gli avrei baciato i piedi. Suonai alla porta, mi aprì ed era spiccicato al padre, vestito come lui. Io soffro di questa cosa, di innamoramenti letterari. Anche Dmitri era il ritratto del padre. L’ho conosciuto quando andai a trovarlo per rivedere con lui la traduzione di Il dono. Viveva nella villa che era stata di sua madre, a Montreux. Finché era stato vivo Vladimir, lui e Vera avevano vissuto in albergo. Nabokov diceva che quando si arriva a una certa età o i domestici sono quelli dell’infanzia oppure è meglio l’albergo. A Montreux non succedeva niente. C’era solo il festival jazz e le persone che incrociavi per strada e ti dicevano ‘Bonjour, Madame’ oppure ‘Bon après-midi, Madame’, o ‘Bonsoir, Madame’. Una noia mortale. Dmitri aveva una passione per le Ferrari. Aveva corso e si era bruciato la sommità della testa in un incidente. Quando ero a Montreux, per controllare le traduzioni, dopo venti minuti gli veniva una faccia stravolta e mi diceva ‘Serena non ce la faccio più’. Mentre le barche e il mare... Insieme siano stati in Sardegna, ma non su uno yacht come avrei voluto io, era un prototipo che poteva scoppiare da un momento all’altro». Serena Vitale è sempre sorprendente. Prima di lasciarci ha una domanda per me: «Qual è la canzone che ti piace di più, in questo periodo?». Ci penso e rispondo: «Musica leggerissima». «Colapesce e Dimartino! Deliziosa. La ascolto sempre prima di andare a letto... Però... Però hanno fatto uno sbaglio terribile». Oddio, quale, non me n’ero accorta: «Silenzio assordante. Gli volevo scrivere, come si può usare un ossimoro così scontato?». Mannaggia, da quando me l’ha detto anch’io vorrei scrivere a quei due. Cambiate il testo! Ingaggiate Serena Vitale!

Biografia

Serena Vitale, nata a Brindisi nel 1945, allieva di Angelo Maria Ripellino, ha insegnato lingua e letteratura russa in vari atenei, tra cui l’Istituto Orientale di Napoli e l’Università Cattolica di Milano, dal 1971 al 2015. È stata sposata con il poeta Giovanni Raboni, con Dmitri Nabokov e, dal 2003, è moglie del pittore ceco Vladimír Novák. Attraverso traduzioni o curatele, ha affrontato autori quali Puškin, Cvetaeva, Esenin, Maiakovskij, Bulgakov, Nabokov, Brodskij. I suoi testi narrativi sono pubblicati da Mondadori e Adelphi. In questi mesi sta lavorando a un libro su un famoso processo del Novecento celebrato in Russia.