Il personaggio

A tu per tu con Darwin Pastorin

Il giornalista sportivo, classe 1955, in questo periodo sta girando la Penisola per presentare il suo ultimo libro, «Lettera a Bearzot: il Vecio, Pablito, il Mundial ’82 e altri incantesimi»
Marco Ortelli
30.10.2022 07:00

Raggiungiamo Darwin Pastorin telefonicamente nella sua abitazione di Torino. Il giornalista sportivo, classe 1955, in questo periodo sta girando la Penisola per presentare il suo ultimo libro, Lettera a Bearzot: il Vecio, Pablito, il Mundial ’82 e altri incantesimi, pubblicato a fine giugno dalla Compagnia Editoriale Alberti. «Di recente sono stato a Oliena, in Sardegna - attacca Pastorin - laggiù ho incontrato scolaresche elementari e giovani delle medie. I maestri e i professori mi hanno poi detto che le ragazze e i ragazzi sono rimasti incantati dal racconto di personaggi che non avevano mai sentito nominare o solo dai nonni». Nonni e bisnonni paterni che sono all’origine della sua «doppia vita» italiana e brasiliana. «Sono figlio, nipote e pronipote di emigranti, tutte persone che dalla fine dell’Ottocento, da Santa Maria di Sala in veneto sono partite, tornate e ripartite per il Brasile». Dove nel 1955, a San Paolo, è nato Pastorin. 

«Disamorato del calcio-business»

Dal «vivo», Darwin Pastorin ha seguito quattro edizioni dei Mondiali di calcio, Usa 94, Italia 90, Mexico 86 e Spagna 82. Un campionato del mondo, quello spagnolo, che a quarant’anni dal trionfo azzurro lei ha voluto rievocare con un libro. Prima di catapultarci in Spagna le chiedo se andrà in Qatar a seguire i Mondiali. «No, ormai ho 67 anni, mi piace sempre scrivere e fare incontri, parlare di calcio, ma le confesso che mi sono un po’ disamorato». «Mi ha poi molto colpito quanto affermato da Eric Cantona su questa edizione qatariota e che riflette un po’ il mio pensiero - prosegue Pastorin -. «Un orrore umano, con migliaia di morti per costruire stadi che serviranno solo per due mesi. Un’aberrazione ecologica». Come salvarsi dal calcio travolto dal business? «Cercando di raccogliere notizie e raccontare storie, oppure rifugiandosi nella memoria». 

«L’evoluzione del nome Darwin»

Pastorin, lei si chiama Darwin, singolare, no? «In quel momento mia mamma stava leggendo in portoghese il libro di Julian Huxley O pensamento vivo de Darwin. Ha sempre avuto una passione per i nomi stranieri e così si è detta «Darwin, però…». Avrebbe anche voluto chiamare mio fratello Gilmar, come il portiere brasiliano campione del mondo nel 1958 e 1962, ma una sollevazione parentale l’ha fatta ripiegare su Fabrizio». Darwin è così all’origine dell’evoluzione della carriera di Pastorin e del legame pluriennale con Enzo Bearzot. «Tutto è partito nel 1977 da Italo Cucci, allora direttore del Guerin Sportivo (il periodico italiano di attualità, cultura e politica sportiva sul quale ogni calciatore voleva apparire), che mi chiamò dicendomi «Darwin, a Villa Sassi a Torino c’è la Nazionale, no, non voglio che intervisti un giocatore, ma Enzo Bearzot». Il problema consisteva nel fatto che il ct della Nazionale aveva tagliato i ponti con il Guerin Sportivo per via delle critiche feroci ricevute dal direttore del periodico. A 22 anni e all’inizio della carriera, Darwin Pastorin ha un’unica soluzione per non «bruciarsi» professionalmente. Riuscire a intervistare l’inintervistabile. «Telefono a Villa Sassi, sento il ricezionista dire «Bearzot, aspetti, c’è Darwin per lei!». Il commissario tecnico: «Io per Darwin e Freud ci sono sempre!». Poi la doccia gelata. «Ah, lei è del Guerin Sportivo? Mi dispiace, ma con voi non parlo». Pastorin cerca di persuadere il selezionatore che infine gli dice «Voglio vederti in faccia, vieni qua». Si incontrano e parlano per tre ore. «Di tutto - ricorda Pastorin -, della contestazione giovanile, di politica, di Dio, del fatto che avrebbe voluto fare il medico, che non aveva concluso il liceo classico ma che amava i classici greci e latini, di voler musicare le poesie del figlio…». L’intervista apparsa sul Guerin Sportivo contribuisce a lanciare la carriera di Pastorin e a far riavvicinare Bearzot e Cucci, che nel 1982 difenderà a spada tratta tutte le scelte del commissario tecnico. 

«Campioni del mondo, campioni del mondo...»

Così, nel 2022, spedisce la sua Lettera al Vecio. «Sì, nel libro mi rivolgo a Bearzot chiamandolo Vecio, soprannome datogli da Giovanni Arpino nel romanzo Azzurro tenebra». Una lettera a cuore aperto, impreziosita da due momenti dedicati a Paolo Rossi, dal 5 luglio 1982 per tutti Pablito. «Mi manca molto, racconta un commosso Pastorin - lo penso tutti i giorni. Nel libro, quando sento della sua morte mi metto a piangere e comincio a rivolgermi al Vecio». Chi è stato per lei Pablito? «Vedendomi mi prendeva sempre in giro mostrandomi tre dita per i gol segnati al «mio» Brasile. Un uomo che nemmeno all’apice della gloria ha commesso un solo peccato di presunzione. È sempre stato gentile con tutti, con quel sorriso a girasole, stupendo, da eterno fanciullo. Non posso credere di non poterlo più sentire e vedere». Un anniversario, i 40 anni dal celebre triplice e indimenticabile «Campioni del mondo!» scandito dal telecronista Nando Martellini, che in Italia ha sollevato una nuova grande onda emotiva celebrata i molti modi, con articoli, pubblicazioni, film documentari come Italia 1982, una storia azzurra, al quale anche Pastorin ha preso parte. «La scomparsa di Paolo Rossi nel 2021 ha colpito tutti e sicuramente ha contribuito a far riemergere in modo straripante le emozioni legate a quell’estate dell’82. Un’estate particolare, per un’Italia angosciata dagli anni di piombo. Una festa Mundial, poi funestata a settembre dall’uccisione a Palermo per mano della mafia del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela e dell’agente di scorta Domenico Russo». Dal miele al buio, per parafrasare il titolo di un romanzo di un altro romanzo di Giovanni Arpino, tra i maestri di Darwin Pastorin, come lo scrittore argentino Osvaldo Soriano.

L’ambivalenza delle lacrime

Inviato dal quotidiano Tuttosport a Siviglia per seguire il «suo» Brasile, il giornalista assiste allo «spettacolo di una nazionale brasiliana fantastica, con fuoriclasse come Zico, Junior, Cerezo, Falcão, il dottor Socrates - che l’anno prima a Montevideo mi aveva chiesto di mandargli le Lettere dal carcere di Gramsci...». Una squadra che aveva liquidato Unione Sovietica, Scozia e Nuova Zelanda segnando 10 reti. «Parlando col collega Marco Bernardini, mi dice, «qui a Vigo l’Italia ha fatto tre pareggi, si è qualificata al secondo posto per la miglior differenza reti col Camerun, ci sono polemiche, silenzio stampa, veleni, un clima infernale». Ho pensato, se a Vigo c’è l’apocalisse, a Siviglia regna l’utopia. Poi arriviamo a Barcellona e cambia tutto. Paolo Rossi rinasce e segna quella tripletta…». L’Italia piange di gioia, in Brasile invece, quel 5 luglio 1982 le lacrime di un intero popolo dicono che abbiano fatto esondare il Rio delle Amazzoni.

Chiusura e apertura di un ciclo

Lei si può ben dire che sia un «romantico» del calcio. Con la Lettera a Bearzot ha chiuso un ciclo di «lettere» molto toccanti spedite in forma letteraria a suo figlio e a un giovane calciatore qualsiasi. Cosa direbbe allora ai giovani praticanti del gioco più bello del mondo? «Di giocare per divertirsi, senza pensare al denaro, né subire pressioni dai  padri e dalle madri, anzi, spediteli al cinema, come mi disse un giorno sorridendo Giovanni Lodetti (campione europeo nel 1968 con l’Italia), a proposito della sua idea di creare una scuola calcio con accanto una sala cinematografica. Il mio invito è di avere anche  la cultura della sconfitta, perché è da lei che si impara a vincere e di non scordarsi che si chiama «il gioco» del calcio».