La mostra

Adriano Pitschen, in senso stretto

Al museo Villa Pia un ristoro contemplativo contro il massacro del visivo
Francesco Pellegrinelli
21.07.2024 18:00

Chi è avvezzo alle letture filosofiche sa bene che la comprensione di un testo avviene per gradi, secondo una progressiva costruzione del significato (e attraverso un continuo gioco di rimandi) tra la parte e il tutto. Entrare in sintonia con un’opera, significa studiarne ex novo il linguaggio. Ebbene, nella visione dell’opera di Adriano Pitschen, c’è qualcosa che si apparenta a questa dinamica: una grammatica da apprendere, una complessità da risolvere, nel suo caso, sulla superficie del foglio o della tela.

Ciò che appare evidente a una prima visita della mostra "In senso stretto", presso la Fondazione d’Arte Erich Lindenberg a Porza, è la complessità di soluzioni che articolano il processo creativo di Adriano Pitschen. Senza ancora definirne i contenuti pittorici, che spiccano per rigore e delicatezza, l’osservatore percepisce subito il movimento che attraversa la sua opera, il suo crescere e il suo moltiplicarsi. Si potrebbe parlare di coerenza interna, di sottili rimandi di senso, di travasi di significato, tra un’opera e l’altra. Entrando nella «Saletta» del Museo Villa Pia, appare evidente come Adriano Pitschen sperimenti, in ogni suo lavoro, la tenuta del suo linguaggio e i suoi valori estetici, che passano in prima battuta dalla composizione e dalla qualità esecutiva.

«Tra le ossessioni dell’artista c’è sicuramente la qualità delle realizzazioni sul piano tecnico», ha giustamente osservato il critico e già direttore del MASI Marco Franciolli. Il quale ha firmato un pregevole testo che accompagna la pubblicazione di un accurato volume nella collana «Approfondimenti» edito per l’occasione da Casagrande. La pittura, per Pitschen, non esiste se non c’è tensione qualitativa. Un approccio scelto dall’artista sin dagli esordi e che ne ha caratterizzato il percorso e i ritmi: lenti e lontani dalle luci della ribalta. «Non ho mai fatto un lavoro dopo l’altro, in serie, solo per produrre», ha dichiarato l’artista. «Il mio lavoro non è mai stato commerciale, e questo mi ha permesso, attraverso la pittura, di indagare discipline tra loro molto diverse».

La pittura, dunque, come mezzo per avvicinarsi al mondo e alla realtà. O, viceversa, il mondo e la realtà filtrati attraverso la pittura, secondo un processo di riduzione e sintesi. E qui, iniziamo a cogliere uno degli elementi costitutivi della pittura di Adriano Pitschen. Ossia, il legame con il reale. «Alla fine io sono un pittore figurativo», suggerisce l’artista. Non sorprenderà allora ritrovare in mostra una serie di acquerelli che ritraggono un piccolo piatto fondo nel quale giace il nocciolo di un frutto; o, ancora, la serie delle «Ovate», acquerelli che nascono dall’osservazione di vegetali. Quasi una dichiarazione di appartenenza poetica, un’epifania mimetica a fronte di un processo creativo che (perlopiù) ha rinunciato alle complicazioni delle singole forme per arrivare, attraverso la composizione, all’essenza del rapporto pittorico.

La matrice mimetica

Eppure, - è bene ricordare - quei tondi o cellule o cerchi che Adriano Pitschen dipinge con sbalorditiva ossessione, conservano la propria origine mimetica in quel legame dichiarato con il reale. «Ho iniziato dagli oggetti presenti davanti a noi e che tocchiamo spesso, come un bicchiere o una ciotola. Si è trattato di sentirli non più legati alla loro funzione ma come potenziali assoluti che possono diventare forme neutre». L’artista afferma così il suo legame con le cose nel loro rapporto con lo spazio che, sul foglio, diventa composizione. «Se c’è qualcosa, è dentro questo rettangolo», dichiara Pitschen rivendicando il suo spazio d’azione. Tutto si gioca sulla superficie, nel rapporto tra forme, spazio e colore. «Il mio insistere sulla composizione - quasi tutti i miei lavori hanno questo titolo - nasce dalla capacità di ritrovarmi ogni volta stupito». La composizione, dunque, come strumento per indagare il rapporto tra le cose, il loro essere presenti qui e ora. Ecco il passaggio filosofico-ontologico che compie la pittura di Adriano Pitschen. «La grande sfida dell’arte moderna è rappresentare il vuoto tra gli oggetti», ricorda l’artista affermando la propria appartenenza a una tradizione che lo pone in dialogo diretto con grandi maestri dell’arte come Giorgio Morandi.

Sintesi e chiarezza

Seguendo un procedimento di sottrazione di peso (molto simile, in realtà, alla logica classica che identifica il processo di astrazione nel passaggio tra il dato sensibile e il concetto universale) Adriano Pitschen persegue un obiettivo di «chiarezza». Un termine che rimanda alla tradizione francese e alla pittura del suo prediletto Chardin. «Il riferimento all’arte francese per me è fondamentale. Non ho mai guardato agli Stati Uniti e alla Pop Art». Una scelta di campo coraggiosa per un artista formatosi all’Accademia di Brera negli anni Settanta (1973-77) quando l’intensa sperimentazione e la nascita di nuove forme di espressione collocavano la pittura, e spesso chi la praticava, in uno spazio residuo.

Oggi, Adriano Pitschen continua un percorso maturato lontano dalle mode e caratterizzato da un’impronta fortemente identitaria. «Fare pittura per un pittore significa inventarsi da capo lettere, vocaboli e sintassi. È un linguaggio che ciascuno deve ritrovare, come se non ci fosse mai stato nulla».

Ebbene, quello di Adriano Pitschen è un linguaggio capace di restituire allo sguardo la forza primitiva delle immagini e, nel contempo, un ristoro contemplativo di fronte al massacro del visivo.

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