Società

Alla fine, la pandemia ha cambiato poco

Camper, telelavoro e un po' di diffidenza: che cosa resta dello «choc» del Covid nella società ticinese, cinque anni dopo?
©Gabriele Putzu
Andrea Stern
Davide Illarietti
Andrea SterneDavide Illarietti
09.03.2025 06:00

La pandemia avrebbe dovuto stravolgere le nostre vite, stando a quanto si ascoltava per riempire i vuoti dei lockdown. Molti di noi si sarebbero ritirati a vivere in campagna, altri avrebbero trasformato le proprie case, tutti ci saremmo dati al telelavoro, avremmo acquistato tutto online, avremmo persino fatto l’aperitivo online, avremmo sostituito baci, abbracci e strette di mano con segnali virtuali, ci saremmo messi tutti a viaggiare in camper e disertato per sempre le piazze affollate e i villaggi turistici.

Cinque anni dopo si può dire che di quegli scenari si è concretizzato ben poco. Buona parte dei cambiamenti che sembravano dover durare nel tempo si è invece volatilizzata non appena le autorità hanno pronunciato il «liberi tutti», o poco dopo, giusto il tempo di capire se era finalmente la volta buona oppure no. Oggi siamo tornati a vivere praticamente nello stesso modo in cui vivevamo prima dei lockdown, come testimoniano le persone che La Domenica ha sentito per identificare gli effetti a lungo termine della pandemia.

Sono rimasti i camper - ma senza aree di sosta - e il telelavoro, anche se meno di quanto si potesse immaginare. A metà febbraio - per fare un esempio - Raiffeisen ha stretto le viti riducendo da 4 a 2 il numero massimo di giorni «da remoto» per i collaboratori. Altre aziende hanno richiamato tutti in ufficio, senza se e senza ma. Si sono spostati in modalità virtuale invece tutta una serie di reati di cui si occupa la Magistratura dei minorenni, sintomo di un disagio giovanile in crescita.

Il cambiamento più forte, ma anche più inafferrabile, riguarda forse proprio il malessere che sembra essersi instaurato nella società. Ne testimoniano i problemi relazionali che si riscontrano nelle strutture ospedaliere, ma anche negli spazi pubblici, sulle strade, nelle famiglie. Quel lungo periodo tra virus e confinamenti ha lasciato degli strascichi dentro di noi, più che fuori di noi.

«La casa non è più solo un luogo dove dormire»

Cos’è cambiato nel nostro modo di abitare dopo quella fase in cui madre, padre e figli alle prese con il telelavoro e la scuola a distanza furono obbligati a litigarsi ogni angolo di casa? «È cambiato davvero poco - sostiene Pietro Vitali, responsabile del corso di laurea in architettura di interni alla SUPSI -. Nel periodo dei lockdown ci fu un forte aumento della richiesta di giardini e di case in campagna, della vendita di arredo domestico, molte stanze degli ospiti vennero trasformate in locali destinati almeno in parte al telelavoro. Ma ora tutte queste tendenze sono rientrate, siamo tornati a vivere più o meno come prima della pandemia».

È rimasta tuttavia la presa di coscienza che la casa non è solo il luogo dove espletare i bisogni di base - dormire e mangiare - ma può essere qualcosa di più, come del resto lo era già in passato. «Nell’epoca preindustriale la casa non era solo una ‘macchina’ in cui abitare ma il luogo di vita di una piccola comunità - afferma Vitali -. La pandemia ha in un certo modo riprodotto questo modello in cui troviamo spazi ibridi dove si può sia riposare sia lavorare». Una tendenza che riguarda un po’ tutta la nostra vita. «Oggi quando siamo al lavoro comunichiamo con gli amici o la famiglia, poi quando torniamo a casa consultiamo le mail del lavoro. La divisione tra vita privata e vita pubblica si sta sciogliendo sempre di più».

«Tra noi è rimasta una certa distanza»

Se già prima della pandemia le relazioni virtuali stavano sempre più soppiantando le relazioni fisiche, i mesi di confinamento in casa non hanno fatto altro che dare ulteriore slancio a questa tendenza ormai quasi inarrestabile. «Ci sono tante persone, tanti giovani che non escono quasi più - osserva Marianne Taylor, life & sex coach -. Vivono costantemente nel mondo digitale e sono quasi spaventate dall’idea di incontrare le persone a quattr’occhi. Con la pandemia è stato facile abituarsi alla comodità di stare in casa, specialmente per chi era già di carattere introverso. Non era nemmeno più necessario uscire di casa per andare al lavoro. L’emergenza sanitaria ha legittimato l’autoisolamento».

Chiaramente gli incontri fisici esistono ancora. Ma anche questi sono cambiati. «La pandemia non ha fatto bene alle relazioni tra le persone - osserva Taylor -. Ci sono stati forti scontri a causa di divergenze di vedute sul vaccino o sulle restrizioni, ci sono amicizie e coppie che si sono rotte, ci sono persone che ancora oggi continuano a non parlarsi. E più in generale vediamo che è rimasta una certa diffidenza. Negli spazi pubblici molte persone mantengono una certa distanza, sembrano avere paura ad avvicinare troppo agli altri. Ci sono molti meno baci e abbracci rispetto a una volta».

«Il rimborso dei crediti Covid resta un problema»

l caffè dalla macchinetta dietro la scrivania invece che al bar o il panino su una panchina anziché il piatto del giorno al ristorante sono alcune delle abitudini che certe persone hanno preso ai tempi della pandemia e non hanno più abbandonato. «Il nostro è un settore molto eterogeneo, ci sono realtà legate più al turismo, altre più agli uffici, non tutti subiamo le stesse conseguenze - premette Massimo Suter, presidente di GastroTicino -. Però tutti dobbiamo fare i conti con la contrazione del potere d’acquisto dei cittadini».

Oltretutto la ristorazione deve fare i conti con l’inflazione e, ciliegina sulla torta, con la necessità di rimborsare i crediti Covid ottenuti durante la pandemia per far fronte alle chiusure forzate. «Quei soldi sono stati utilizzati per mantenere attive le società - afferma Suter -. Non è facile adesso andare a cercare il capitale per ripagare questi crediti, tanto più che i tassi di interesse sono parecchio alti».

Le condizioni non sono facili. Il personale presta più attenzione all’equilibrio vita-lavoro, chiedendo più tempo libero, e sono pure venuti a cadere quei piccoli privilegi, come le terrazze allargate, che l’ente pubblico aveva riservato a bar e ristoranti. «All’orizzonte non si vede un gran sereno - conclude Suter -. Ma siamo un settore resiliente, ognuno di noi cerca di reagire alle avversità».

«Il telelavoro un'eredità positiva»

Prima della pandemia la parola «smartworking» in Ticino era sussurrata tra i responsabili delle risorse umane e associata a qualche progetto pilota, sperimentato dalle grandi aziende. Ora la pratica è sdoganata anche se «è vero che qualcuno è rimasto probabilmente deluso» sottolinea Jenny Assi, docente Supsi e ricercatrice nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa. Il Covid in ogni caso ha dato un’accelerata a «un processo che è ora irreversibile - prosegue l'esperta -. C'è stato un assestamento, ma non si è certamente tornati allo stato di cose pre-Covid».

Una ricerca della Supsi ha rilevato che il telelavoro continua a essere in cima alle richieste dei lavoratori nel settore terziario come mezzo di conciliazione vita-lavoro, con benefici in termini di produttività e risparmio di tempo. «Da quanto osserviamo le aziende che hanno adeguato i luoghi di lavoro e i flussi a questa nuova modalità, orientandosi di più al lavoro su obiettivi, ne hanno tratto i maggiori benefici e lo mantengono tuttora in misura significativa» osserva Assi. «In altre situazioni il telelavoro è stato implementato in modo marginale e contingente, per ragioni di cultura manageriale o esigenze del settore, e qui l'esperienza è stata meno positiva». In Ticino una battuta d’arresto è stata causata poi dalle resistenze italiane sul dossier frontalieri (poi sfociate nell'attuale limite al 25 per cento del tempo lavorativo).

«L'industria ha retto il colpo, non era scontato»

Stefano Modenini ricorda ancora quei «mesi di fuoco» tra marzo e maggio 2020, quando ogni settimana le associazioni padronali in Ticino si riunivano con i sindacati per firmare la richiesta dello «stato di crisi» da inviare a Berna. «È grazie a quella concertazione che sono stati erogati gli aiuti speciali e il nostro sistema produttivo ha potuto reggere il colpo senza fallimenti» ricorda il direttore dell’Associazione Industrie Ticinesi (Aiti). «Non era per niente scontato e dispiace vedere che oggi in molti sembrano esserselo dimenticato». Il ritorno alla normalità in questo caso è decisamente una buona notizia: quello che resta è «una maggiore sensibilità da parte delle aziende rispetto agli aspetti sanitari» con igenizzatori e mascherine ampiamente sdoganati e ancora utilizzati all’occorrenza. Il rovescio della medaglia sono i crediti Covid da rimborsare: in Ticino ne sono stati erogati 12.583 (il terzo cantone per volumi, dopo Zurigo e Vaud) per un totale di 1, 3 miliardi di franchi. Solo il 35 per cento sono stati rimborsati, a fronte di una media nazionale del 72 per cento. Significa che le imprese, in particolare le PMI, fanno più fatica che altrove ad onorare gli impegni presi. Non a caso dodici associazioni padronali hanno scritto al Consiglio federale settimana scorsa per chiedere una riduzione dei tassi di interesse, aumentati nel 2023.       

I reati commessi dai minorenni sono aumentati, specie sui social

C'è un «long-Covid» anche nel disagio giovanile e si misura con i procedimenti giudiziari nei confronti di minorenni, purtroppo, che dopo la pandemia hanno registrato un aumento. «Sicuramente gli incarti aperti sono aumentati, non solo quelli per reati gravi ma anche e soprattutto per le fattispecie più semplici» sottolinea il magistrato dei minorenni Fabiola Gnesa. L’impatto si vede «nella fragilità di tanti ragazzi che sono in un certo modo disorientati, in crisi, una fragilità sicuramente preesistente ma che la pandemia ha in qualche modo accelerato e amplificato».

Un’altra eredità è il peso accresciuto dei social-network, che fanno spesso da sfondo e palcoscenico a reati e abusi. «La condivisione di materiale proibito, l’ingiuria e il bullismo si sono spostati sempre più nello spazio virtuale, dove c’è come l’idea che tutto sia possibile e impunito» prosegue la procuratrice. «Questo chiaramente con la pandemia si è accentuato, perché le interazioni erano possibili solo su internet, e adesso ne vediamo le conseguenze». Per fortuna «è aumentato parallelamente anche lo sforzo di sensibilizzazione, che è sempre maggiore e coinvolge anche le scuole e soprattutto i genitori». Questi ultimi hanno un ruolo fondamentale, conclude Gnesa, e devono sforzarsi a loro volta a tenere il passo coi tempi.

Ostinelli: non si è fatta autocritica

Dovessimo affrontare di nuovo una situazione del genere, «sarebbe il caos», ancora peggio che nel 2020, secondo il dottor Roberto Ostinelli, volto di punta del movimento che durante la pandemia contestò le misure imposte dalle autorità, a partire dalla vaccinazione pressoché obbligatoria. «Non c’è stata autocritica, non si è voluto ammettere che certe direttive si sono rivelate completamente sbagliate - afferma Ostinelli -. Questo atteggiamento un po’ omertoso favorisce un clima di sfiducia. Oggi molta gente non seguirebbe più certe regole, magari neanche quelle più elementari e di buon senso».

Sfiducia e malessere sono, secondo il dottor Ostinelli, l’eredità lasciataci da quel periodo. «Ci sono persone che hanno interiorizzato la paura e ancora oggi vivono nel terrore dei virus - osserva -. Poi ci sono persone che a causa del ricatto delle misure coercitive non si fidano più delle istituzioni, della sanità, dei medici. Purtroppo vediamo tante situazioni di malessere legate a quel periodo. La gente è più nervosa, litigiosa, non sta bene».

Indietro non si torna. Ostinelli volge il suo sguardo al futuro. «Dobbiamo lottare contro il pensiero unico, quei condizionamenti molto pesanti e quella censura che sono emersi in maniera chiara durante il covid. Dobbiamo lottare per preservare la diversità di opinioni, che è la nostra forza, e per la libertà delle persone».

«Altro che applausi, gli infermieri ora fanno da parafulmine»

Come sembrano lontani i tempi in cui medici e infermieri venivano applauditi dai balconi. «Siamo passati da un periodo in cui gli operatori sanitari venivano visti come degli eroi - spiega Stefano Pensotto, sindacalista OCST nel settore sociosanitario - a un altro periodo in cui invece spesso si ritrovano a fare da parafulmini. È un cambiamento multifattoriale, in cui sicuramente una buona fetta deriva dal periodo pandemico. Si è generata una sofferenza a livello sociale che si ripercuote molto sulle strutture, con pazienti più diffidenti, che pretendono di essere curati in fretta e che si esprimono in modo crudo. Il paziente vive l’ospedalizzazione in maniera meno serena e questo si ripercuote a livello verbale».

Si creano situazioni di tensione che non favoriscono l’operato di una categoria, il personale curante, già parecchio sotto pressione. «Durante i lockdown gli operatori sanitari hanno fatto grandi sforzi, hanno visto la sofferenza, hanno accumulato stanchezza - afferma Pensotto -. Ora vengono ripagati con questo inasprimento delle relazioni che spinge alcuni di loro a interrogarsi sul proprio futuro professionale. Queste sono professioni che implicano una certa vocazione. Se viene a mancare l’aspetto della gratifica, è comprensibile che qualcuno pensi di cambiare settore o finisca per farlo veramente».

Le fabbriche di mascherine hanno chiuso 

Durante il picco erano una mezza dozzina. Da Balerna a Sementina, le aziende nate o convertite alla produzione di mascherine chirurgiche o FFP2 hanno colmato in fretta e furia un vuoto nella filiera della prevenzione «made in Ticino». Altrettanto in fretta e furia, poi, la maggior parte hanno chiuso i battenti. «È stata una fase faticosa che ha portato a grandi soddisfazioni, penso che lo rifarei» spiega Federico Tamò, farmacista di Bellinzona che nel momento più buio del 2020 ha aperto un laboratorio (Farmaconsult a Sementina) che è arrivato a impiegare una ventina di dipendenti. Gli ultimi sono stati lasciati a casa l’anno scorso.

«Non è stato piacevole, ma abbiamo fatto tutto in regola. Il lavoro è crollato dopo la pandemia perché la Confederazione ha deciso di non mantenere una produzione nazionale. Fa male, anche perché vuol dire che alla prossima pandemia saremo punto a capo» conclude Tamò, che ora è costretto a rottamare macchinari pagati a suo tempo a caro prezzo. Altrove è andata ancora peggio: la ditta Hcpd di Taverne, ad esempio, nel marzo 2023 licenziò in tronco 8 dipendenti (era arrivata ad averne una quarantina) con tre mesi di stipendi non pagati. Alla fine saldò il conto la cassa disoccupazione, a seguito dell’istanza di fallimento presentata dal sindacato Ocst.       

I camperisti sono aumentati, le aree di sosta molto meno

Una delle eredità più concrete e durature del Covid, probabilmente, è la quantità non indifferente di nuovi camper in circolazione. I lockdown hanno fatto riscoprire agli svizzeri il piacere di accamparsi, e dopo la pandemia le immatricolazioni delle «case-vacanza» a quattro ruote in Ticino hanno continuato ad aumentare: i veicoli registrati a Camorino erano 1.404 nel 2020, l’anno scorso 2.257 (più 60 per cento in quattro anni).

Anche l’associazione dei camperisti della Svizzera italiana ha avuto un aumento di iscritti «anche se non altrettanto esponenziale» sottolinea il presidente Manuel Garbani. Il problema è che le aree di sosta presenti sul territorio «sono rimaste sostanzialmente le stesse a parte qualche rara eccezione» prosegue Garbani. «Spesso capita di non trovare posto e di dover cercare posteggi di fortuna. Questo vale per molte destinazioni ma in particolare per il Ticino» prosegue il portavoce della categoria. L’associazione si è rivolta negli anni a diversi Comuni ed enti pubblici ma «finora non siamo stati molto ascoltati, forse per un pregiudizio ancora molto diffuso che associa il camperismo al nomadismo e a disagi e problemi. Non è così. Semmai, creiamo un notevole indotto economico». Anche i prezzi dei camper sono aumentati, intanto, di un buon 10- 20%.

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