Il ritratto

«Alla Romantica ero circondato da ballerine, ma fotografavo il lago»

Gianni Berengo Gardin è il più grande fotografo italiano, ma anche mezzo ticinese: siamo andati a trovarlo
Berengo Gardin ritratto nel suo studio-mansarda a Milano. © Jacob Balzani Lööv
Davide Illarietti
15.09.2024 06:00

È possibile fermare il tempo che fugge? Le scale del palazzo salgono a spirale e quindi sono una metafora del tempo - tutte le spirali sono metafore del tempo - come in certe foto di Cartier-Bresson: danno le vertigini anche dal basso. In cima, all’ultimo piano, il Cartier-Bresson italiano aspetta l’intervista e per l’occasione - cos’è un’intervista se non esercizio di memoria, come la fotografia - si ricorda di essere un po’ anche il Cartier-Bresson ticinese.

Gianni Berengo Gardin ha 94 anni e non è riuscito a fermare il tempo. In compenso ha accumulato un’infinità di scatti: nella soffitta di casa sua a Milano - un palazzo signorile, in una zona dove Milano sembra Parigi - custodisce due milioni di negativi immortalati in una vita da fotografo, accuratamente catalogati in file e file di classeur.

«È uno svizzero» ironizza la figlia-assistente Susanna, e come molti milanesi con «svizzero» intende «preciso» e forse anche «troppo preciso». In giro per la soffitta ci sono diverse prove di ciò. Modellini di navi riposti in file rigorose, aeroplanini, libri divisi per settore, attrezzi di bricolage: una tendenza all’accumulo controllata e ordinata in decine di scaffali.

Nella mansarda dei ricordi

Berengo Gardin del resto è svizzero veramente. Non di passaporto («anche se mia madre avrebbe voluto») ma nei fatti: nato nel 1930 a Santa Margherita Ligure da un’albergatrice ticinese e un canoista veneziano - «la mamma aveva un hotel sulla spiaggia, ereditato dal primo marito che era di Lugano anche lui» - ha frequentato a lungo il Ticino in gioventù. Ricorda di Lugano posti e persone che non esistono più, come fosse ieri: uno scherzo della memoria e del tempo, anche questo.

© Jacob Balzani Lööv
© Jacob Balzani Lööv

«Ho tantissime memorie legate alla Svizzera, per me è sempre stata un mito» racconta l’anziano fotografo seduto al tavolino sotto le travi di legno della mansarda: alla parete tra vari cimeli (c’è anche una dedica «a Gianni con ammirazione» firmata da Cartier-Bresson, quello vero) spicca un dagherrotipo di fine ottocento. Una famiglia della Lugano-bene in giardino, i Maffei: la bambina vestita da bambola è sua madre. Il riflesso argenteo della lastra ricorda come agli albori la fotografia fosse un lusso per pochi.

«Un artigiano della fotografia»

Le foto di famiglia non sono quasi mai belle. Ma anche un maestro può cedere al loro valore affettivo. Per altro nell’enorme mansarda non ci sono molte altre foto appese ai muri: di sicuro nessuna di Berengo Gardin, a parte quelle riprodotte sui molti libri accatastati (ne ha realizzati 256: il numero, confessa, è il suo «unico vanto»). Oggi che il primo scatto un po’ riuscito è appeso in salotto da quasi ogni foto-amatore in formato gigante, la cosa fa riflettere. «Il mio è un mestiere umile» dice il maestro. Le bretelle gialle sulla camicia, i sandali ai piedi confermano l’impressione. «Mi sono sempre considerato un artigiano».

Berengo Gardin in una foto di fine anni '40, alla Romantica.
Berengo Gardin in una foto di fine anni '40, alla Romantica.

Eppure Berengo Gardin ha dovuto abituarsi a essere fotografato da altri. Jacob Balzani Lööv, freelance italo-svedese autore di reportage per diverse testate internazionali, ritrae per La Domenica il maestro mentre, alla scrivania, racconta l’imbarazzo di esser diventato «oggetto di culto mio malgrado» e non capire perché. Per assurdo questo è accaduto proprio mentre l’arte fotografica diventava un hobby di massa e una professione in crisi. «Oggi - dice Berengo Gardin - vivere di questo mestiere è praticamente impossibile». Balzani Lööv scatta e annuisce.

L’educazione svizzera

Ma come si diventa allora (o si diventava) fotografo, anzi il più grande fotografo italiano del Novecento? Anche qui c’entra la Svizzera. La figlia Susanna frugando tra i classeur ha recuperato una vecchia foto: un uomo passeggia tra un albero e una panchina sul lungolago di Lugano. Il maestro si riconosce («sono io, è un autoscatto») nel ricordo delle estati della gioventù, trascorse dai parenti sul Ceresio tra via Nassa che «era diversissima» - «i miei nonni avevano un negozio di ferramenta, adesso è una boutique» - e il parco Ciani che invece «era già un luogo magico e per me lo sarà per sempre». Proprio lì, sulle panchine della Foce, scatta le prime «bruttissime» foto ai riflessi dell’acqua con una macchina comprata in un altro negozio oggi scomparso anch’esso, sempre in via Nassa. «È stata - ricorda - la prima che ho acquistato. All’epoca cercavo i paesaggi romantici, ero un dilettante».

I soldi arrivavano da uno dei tanti lavoretti svolti «umilmente» dall’aspirante fotografo - commesso, portiere d’albergo, cameriere, a Venezia, Roma, Parigi, Vienna - e da generazioni di aspiranti fotografi prima e dopo di lui, per sbarcare il lunario in attesa della gloria.

L'autoscatto sul lungolago di Lugano.
L'autoscatto sul lungolago di Lugano.

«È passato un po’ prima che pensassi di poterne fare un mestiere» racconta. Il lavoro più difficile fu quello di bagnino alla Romantica di Melide: «Non sapevo nuotare - confessa - i proprietari lo scoprirono quando mi nascosi dietro a una cabina alla prima richiesta di soccorso». Il più divertente invece fu quello di guardiano delle entraîneuse che ballavano al ristorante. «Il locale era molto elegante ma un po’ equivoco. Le ragazze erano tutte francesi e molto raffinate» racconta il maestro. «Erano orgogliose, non si facevano maltrattare dai clienti. Ne vidi una strappare un assegno in bianco lasciatole da un cliente cafone, non la dimenticherò mai».

Oggi anche la Romantica è scomparsa, sostituita da appartamenti («peccato»). Nel frattempo alcune foto di prostitute scattate da Berengo Gardin sono diventate famose: all’epoca di Melide però lui preferiva ancora i paesaggi lacustri. «Le ballerine mi limitavo a guardarle, mi toccava controllarle per conto dei titolari, una coppia di zurighesi molto antipatici» ricorda. Il compito era assicurarsi che non si appartassero con i clienti prima delle due di notte. «Dovevo far rispettare il regolamento. Ma avevo molto rispetto per loro».

Susanna tira fuori un’altra foto dell’epoca: lo ritrae in camicia e papillon al desco della Romantica. Elegante e sorridente. Era il finire degli anni ‘40.

L’impegno sociale

Il tempo delle foto «bruttissime» stava per finire. A una carriera dei locali notturni ticinesi Berengo Gardin ha preferito, per fortuna, tornare in Italia («mi offrirono un altro lavoro in un postribolo a Capo San Martino, ma rifiutai») e dedicarsi a modo suo all’impegno sociale. Su un’altra parete della mansarda svettano un dipinto di bandiere rosse e il ritratto enorme di Lenin - «l’ho pagato una fortuna, era in una fabbrica a Stalingrado» - sotto a un bassorilievo africano in legno (una coppia in amplesso). «Sono stato comunista per gran parte della mia vita» dice con fierezza. «Eppure da ragazzino ero un ammiratore sfegatato del Duce. A scuola nel Ventennio ci facevano il lavaggio del cervello».

La bacheca del fotografo. © Jacob Balzani Lööv
La bacheca del fotografo. © Jacob Balzani Lööv

Anche l’impegno politico del fotografo - «a un certo punto ho deciso di usare la macchina fotografica per mostrare i problemi della società» - ha qualcosa a che fare con le origini svizzere. La madre, Carmen, era una convinta antifascista. «Era una donna eccezionale per i suoi tempi, lavoratrice, potrei dire una femminista ante-litteram» ricorda il maestro. «Mio padre invece era conservatore e un po’ fascistello. Ho capito che aveva ragione la mamma solo dopo la guerra».

«La guerra mi fa paura»

Nella mansarda l’unico oggetto dal sapore vagamente bellico è il modellino di un aereo stile Barone Rosso appoggiato alla scrivania (ma forse è un omaggio a uno zio luganese, Attilio Maffei, che compì la prima trasvolata Lugano-Como nel 1911). Piccoli monumenti d’altro tipo abbondano sugli scaffali: automobili in legno, un vaporetto, navi a vela, navi a remi, navi di ogni timo ma nessuna nave da guerra. Berengo Gardin è molto appassionato di modellismo - «li ho costruiti tutti io, con gli attrezzi che vedete sul quel tavolo» - mentre non è per niente appassionato di guerra.

«Ho sempre evitato di fare servizi da zone di conflitto perché sostanzialmente ho una grande fifa della guerra. L’ho vissuta sulla mia pelle da ragazzino e mi ha fatto orrore» ricorda. «Stavamo a Roma sotto le bombe e non c’era cibo né elettricità. Per fortuna in quanto famiglia svizzera ricevevamo ogni mese una cassa di vivande dall’ambasciata elvetica. Era un grande sollievo».

Riconoscenza. È ciò che dicono gli occhi di Berengo Gardin anche quando ricorda «una targa affissa alla porta di casa nostra che diceva: famiglia svizzera, extraterritorialità». Un escamotage che durante la guerra «ci ha protetti e ci ha permesso di dare rifugio a un colonnello della resistenza» ricorda.

La neutralità intesa come schierata - «io sono per mandare le armi in Ucraina ad esempio» - è un altro tratto che lega il fotografo al paese materno un po’ inaspettatamente. Si definisce un «pacifista pragmatico». La figlia Susanna sorride in un angolo: «È svizzero - ripete - è svizzero».

Le Leika trafugate

Neutralità non vuol dire apatia, fotografare significa prendere parte - è la grande lezione dei fotografi del Novecento - e anche essere «svizzero» non significa essere osservatore irreprensibile. Gli «sgarri» di gioventù li ha fatti anche Berengo Gardin e non solo in gioventù: confessa ad esempio di essere stato solito «per lungo tempo fare piacevoli gite con amici a Lugano» per comprare «tabacco inglese introvabile in Italia» - conserva ancora dei vasetti tra le navi di legno - ma soprattutto macchine fotografiche. «Mettevo tutto nel bagagliaio dell’auto e quando arrivavo alla dogana di Chiasso le guardie mi chiedevano sempre se avessi sigarette. Rispondevo di no, ed era vero. Non ho mai pagato un dazio sulle macchine fotografiche».

Uno sgarro che il maestro «ticinese» non ha mai fatto, invece, è modificare le foto al computer - «i telefonini e fotosciòp hanno rovinato la fotografia, non voglio pensare all’intelligenza artificiale» - e non lo farà mai: da alcuni anni, assicura, ha smesso totalmente di fotografare. Si limita a rovistare tra gli scaffali della mansarda, dove magari a volte scova fotografie mai esposte né pubblicate: da queste ri-esplorazioni è nata, ad esempio, l’ultima mostra intitolata «Cose mai viste» appena conclusasi alle Sale d’Arte di Alessandria.

Nient’altro. A volte gli capita di uscire con la Leika ma senza fare scatti. «Mi piace portarla ancora in giro di tanto in tanto - ammette salutando - ma non vado lontano. In Ticino non torno da anni». Le scale a spirale sono lunghe a scendersi come già a salire. Il tempo passa per tutti, alla fine, tranne che nelle fotografie.

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