«Bene lo sciopero, ma i toni divisivi mi danno fastidio»

Sempre in prima linea nella difesa delle donne, Chiara Simoneschi-Cortesi sostiene lo sciopero femminista del 14 giugno, sebbene non condivida certe uscite delle organizzatrici di questa giornata. «Oggi si fa una grande confusione su cos’è la parità», afferma colei che è stata la prima donna ticinese a presiedere il Consiglio nazionale.
Signora Simoneschi-Cortesi, lei parteciperà allo sciopero di mercoledì?
«Io purtroppo non posso più fare quello che vorrei, per questioni di salute, sono limitata nella mobilità. In passato ho partecipato attivamente agli scioperi, ho anche preso la parola, però mi sembra che quegli scioperi non fossero così connotati in modo estremistico».
Perché parla di estremismo?
«Perché sentendo il movimento ‘Io l’8 ogni giorno’, sembra quasi che negli ultimi anni non sia stato fatto niente. Ma non è vero!».
Forse non è stato fatto abbastanza.
«C’è ancora tanto da fare, è un compito permanente.Ma a me disturba quando si vuole tornare a una forma di lotta invece che di analisi, discussione e azione. Dovremmo collaborare tutti insieme - donne e uomini - per trovare delle formule concrete che aiutino a raggiungere gli obiettivi fissati dall’articolo costituzionale del 1981».
Quali sono questi obiettivi?
«L’articolo 8, capoverso 3 della Costituzione federale chiede che siano eliminate tutte le discriminazioni dirette e indirette, che vengano realizzate la parità giuridica e di fatto, in tutti gli ambiti della società. Inoltre a parità di lavoro si esige una parità di salario».
Quindi lo sciopero è inutile, secondo lei?
«No, non dico questo. Le donne fanno bene a farsi sentire. È vero quando dicono che ‘se le donne vogliono, tutto si ferma’ (fu lo slogan del primo sciopero). A darmi fastidio, come detto, sono certi toni divisivi. Non vanno bene, non è così che si raggiungono risultati».


Loro dicono che ci vogliono segnali forti.
«I segnali forti bisogna farli cambiando le leggi e l’organizzazione della società. Non è giusto che le donne si carichino sulle spalle 2/3 delle attività - molte delle quali non remunerate - per guadagnare solo 1/3 delle risorse».
Quindi non va tutto bene.
«Come detto, c’è molto da fare per realizzare appieno la parità di fatto. Tutti siamo chiamati a operare in tal senso. Dobbiamo insistere su un cambiamento di mentalità che tocca soprattutto gli uomini, i mariti, i padri. Dobbiamo riequilibrare gli impegni familiari, lavorativi e del tempo libero tra i due partner per arrivare a una più equa presenza e partecipazione di donne e uomini in tutta la società».
Lei parla di cambiamento di mentalità. Ecco, perché i femminicidi non accennano a diminuire?
«Ci sono uomini che non hanno mai digerito l’evoluzione della donna in questi ultimi 50/60 anni. Vedono ancora la donna come loro possesso personale. Il femminicidio è l’estremo tentativo dell’uomo di avere la donna in suo possesso. È la negazione assoluta della parità».
Perché questa mentalità non scompare?
«Mi è rimasto impresso quanto mi disse una politica canadese, che incontrai come presidente della Commissione federale per le questioni femminili, insieme alla signora Lucienne Gillioz, autrice del primo studio svizzero sulla violenza contro le donne. La signora canadese ci fornì una ricetta tanto semplice quanto disarmante. Disse: se voi cercherete di realizzare la parità in tutti i rami della società, come da dovere costituzionale, voi abbatterete la violenza».
Ritiene che le quote siano utili per raggiungere questo obiettivo?
«Le quote sono uno dei possibili strumenti. Purtroppo però hanno ormai un’accezione assolutamente negativa, bisognerebbe parlare piuttosto di percentuali minime. Però sì, per avere una rappresentanza equilibrata è necessario porsi degli obiettivi minimi, da rivedere man mano che vengono raggiunti. Su quest’aspetto avrei un esempio dalla Svezia».


Quale esempio?
«Negli anni ‘90 incontrai il ministro svedese delle pari opportunità. Allora nel suo Paese c’era già il congedo parentale, ma ne usufruivano quasi solo le donne. Il ministro aveva quindi deciso che almeno il 30% del congedo dovesse andare al padre. In questo modo, con un’imposizione, sono arrivati alla situazione attuale in cui il congedo parentale viene diviso praticamente a metà tra i due genitori».
Da un recente studio zurighese emerge che la maggioranza delle studentesse preferirebbero sposare un uomo in carriera piuttosto che fare loro stesse carriera. Questo studio l’ha stupita?
«Più che stupire, mi ha fatto incavolare tantissimo. Mi sono detta che non era possibile una cosa del genere. Bisognerebbe dare l’incarico a una dottoranda di andare a controllare bene come è stato condotto questo studio».
L’hanno condotto due professoresse rispettate, due donne.
«Io ho una formazione scientifica, so benissimo che spesso i risultati dipendono da come vengono poste le domande».
Ritiene che lo studio sia motivato politicamente?
«Sì, mi puzza di tentativo di influenzare il dibattito ora che bisogna cambiare ancora la legge sulla parità tra i sessi per quanto riguarda la parità salariale, introducendo delle sanzioni».
Quindi non crede che ci siano donne che preferiscono la famiglia alla carriera?
«Certo, ognuna può fare quello che vuole. Ma lavorare non significa solo fare carriera. Significa innanzitutto mettere in pratica ciò che si ha studiato, significa autonomia e in caso di divorzio non dover cadere in povertà. Io credo che le donne, che hanno sempre più dei buoni diplomi, abbiano il desiderio di cimentarsi nel mondo del lavoro e di restituire alla società quello che hanno ricevuto dalla famiglia e dalla scuola. Dubito che queste donne saranno contente di fare le dame... Dubito assai».


È un dato di fatto che ci sono donne laureate che restano a casa con i figli.
«Sì, ma bisogna vedere se è un desiderio loro o del marito. Se è quello del marito cosa fai? È chiaro che diventare madri in Svizzera è una corsa a ostacoli. Sebbene siano stati fatti tanti progressi a livello di formazione e di servizi di sostegno alle famiglie con figli, la maternità è ancora oggi un freno sul lavoro».
La situazione non sta migliorando?
«Io vedo che al Consultorio Donna&Lavoro di Massagno i casi continuano ad aumentare. In pochi anni sono passati da un centinaio a più di 200. Sono soprattutto donne licenziate quando tornano dalla maternità, oppure cui si chiede in fase di assunzione se intendono sposarsi e fare figli, ciò che è contrario alla legge».
Aumentano perché ce ne sono di più o perché se ne denunciano di più?
«Perché finalmente siamo riuscite ad attirare l’attenzione su queste discriminazioni e a far conoscere meglio il consultorio. Sebbene ci siano ancora tante donne che hanno paura a intraprendere dei passi. Bisogna fare ancora più informazione per cambiare questa cultura che in realtà è una subcultura».
Siamo sulla buona strada?
«Io dico di sì. Però dobbiamo fare tutti qualcosa, come persone, come famiglie, come società. Perché una società più giusta, va a beneficio di tutti».