Böcklin, Basilea e gli urli prima di Munch
Pochi artisti, come Arnold Böcklin (Basilea, 1827 - San Domenico di Fiesole, 1901) ebbero il culto della tradizione. Più i rami crescevano e si sviluppavano, più le radici dovevano scavare nelle profondità della storia. Oltre la scuola veneziana, al di là del mirabile esempio rinascimentale, il suo grande amore era per gli antichi affreschi di Pompei. Là l’arte pittorica aveva raggiunto il supremo equilibrio tra forma e contenuto, analisi e sintesi, espressione e colore. Là si trovavano le grandi tecniche che andavano ripristinate. Se la pittura ad olio, come il pianoforte, poteva limitare le possibilità timbriche del suono-colore (Böcklin precursore di John Cage?) gli antichi impasti, i segreti pigmenti degli affreschi di Pompei, indicavano la giusta via. L’arcaica formula dell’encausto, i colori diluiti in cera fusa e spalmati a caldo sull’intonaco, assicuravano un risultato migliore. Ma non tutto ciò che brillava poteva essere prezioso. Böcklin detestava la Francia e non amava la nuova pittura francese; per lui gli impressionisti erano troppo esteriori, troppo facili, talvolta frivoli. Come si giustificava quell’aereo e svolazzante brulichio di luci? Su cosa si basava quella macchia di colore? Come si poteva comprendere quella spatolata di verde, quella pennellata di rosso, quel guizzo di nero? Certo, come diceva Baudelaire, un quadro molto finito può non essere fatto del tutto, ed un altro apparentemente incompiuto può essere perfettamente realizzato; anche per Böcklin ciò che era appena abbozzato, quello che era sapientemente accennato può affascinare molto di più di un lavoro meticolosamente rifinito. Così se gli impressionisti mutarono la pittura dal suo esterno, Böcklin la volle riedificare dal suo interno.
Il passaggio a Weimar
Nell’autunno 1860, a trentatré anni, venne nominato professore di pittura di paesaggio all’Accademia di Belle Arti di Weimar. Dopo un periodo di gravi difficoltà economiche, sembrava che la sua vita avesse acquistato una serena stabilità. Per lui e la sua numerosa famiglia poteva essere una bella sistemazione. Ma, dopo due soli anni, il richiamo verso l’Italia si fece sempre più forte. La nostalgia verso il Sud, per Roma e la Toscana, era troppo intensa; il desiderio di rivedere e poter vivere nel paese più bello del mondo lo sradicò dalla sua Svizzera e dalla Germania. Ne aveva abbastanza della città del gran duca, della sua attività di professore, di quel paese meschino «di patate e barbabietole». Aveva bisogno del «Sud non civilizzato». Come Schopenhauer, Böcklin era persuaso che l’uomo è dominato dalla volontà asservita all’istinto, e non alla ragione. In fondo, che cosa sono la storia, la civiltà, il progresso, di fronte all’immensa forza della natura? Che cosa sono l’intelligenza, la tecnica, la cultura, a confronto del grandioso enigma del mondo? Non ci si rende conto che siamo infinitamente piccoli nell’infinità dell’universo? Non siamo coscienti della nostra assoluta fragilità? Nonostante le numerose conquiste della tecnologia e della scienza, Böcklin sapeva che siamo un microscopico puntino nello spazio - in attesa di un’identità trascendentale. Per quanto ne sappiamo, la terra potrebbe essere un gigantesco animale e noi, poveri uomi ni, i suoi piccoli parassiti. Come Shakespeare, talvolta pensava che «La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore/che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena/e del quale poi non si ode più nulla: è una storia/raccontata da un idiota, piena di rumore e furore,/che non significa nulla». (Macbeth, V.v.).
Quei racconti come favole
Ma amava moltissimo il volo, e a partire dal 1860 fu uno dei primi a progettare e collaudare preziosi e pionieristici velivoli. Studiando al liceo ginnasio si era innamorato delle storie della mitologia. Quei racconti, quelle favole, quelle paradossali e ambigue narrazioni, in realtà, erano il cuore dell’esistenza. Come aveva benissimo scritto Sallustio: «Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre». Così, soprattutto a contatto con gli intensi colori del Mediterraneo, con il Sud selvaggio, i suoi dipinti si riempirono di fauni, di ninfe, di sirene, di satiri, di titani, di centauri, di eroi, di presenze ovvie e misteriose, possenti ed effimere. In esse, come nella vita, tutto era lotta, desiderio, conflitto, passione. Dipinti stupendi, spesso realizzati con colori vividi e smaltate efflorescenze timbriche, molti dei quali sono custoditi al Kunstmuseum di Basilea.
Il gesto di un segno sigillato in una forma
Un suo grande ammiratore, il compositore Max Reger (Brand, Baviera 1873 - Lipsia 1916) nel 1913 compose i Quattro poemi sinfonici da Arnold Böcklin. Da tempo era affascinato dalla forza di quei colori. Come Liszt, era persuaso che l’immagine, la parola, il gesto di un segno sigillato in una forma, potessero aiutare l’ispirazione dell’artista. Molto distante da qualcosa di semplicemente descrittivo, lontano da una banale riproduzione, la fonte sonora poteva sgorgare liberamente dalle intime emozioni che una poesia o un dipinto sapevano donare. Già Eichendorff e Hölderlin, con le loro ricche parole, lo avevano ispirato per alcuni canti - sinfonici spazi di luce in cui il senso dei versi si dilata in una costellazione di timbri e di voci. Poco dopo, su quattro capolavori di Arnold Böcklin - il più grande pittore del secondo Ottocento svizzero-tedesco - concentrò la sua attenzione: L’eremita che suona il violino, Nel gioco delle onde, L’isola dei morti, Baccanale, divennero l’origine di una copiosa metamorfosi sonora.
Solitudine e malinconia
Reger amava Böcklin per la solidità dei toni, la maestria della tecnica, il rigore della composizione e l’enorme rispetto per la tradizione. Se i suoi contrappunti visionari, le grandiose variazioni, i suoi fittissimi intarsi sonori partivano da Bach - trascendendolo in una ricca virulenza espressionista - anche Böcklin aveva sempre dimostrato il suo grande amore per i maestri del passato; e Tiziano, Savoldo, Guido Reni, Rubens, furono i suoi fedeli modelli - per una ispirazione che affondava le proprie radici fino alle antiche pitture di Pompei. Ogni cosa era volontà e contraddizione, tutto era univoco e doppio, molteplice e paradossale; tutto, insieme, è solare e notturno, positivo e negativo, chiaro e oscuro: come nel grande simbolo di Pan, il dio che più amava: il dio dell’unità e della dissociazione, della grazia e della ferocia, dell’armonia e della paura. Cosa rimaneva oltre quelle storie? Cosa perdurava al di là di quegli enigmi che ci descrivono così impietosamente? Solitudine e malinconia, malinconia e dolore; il pianto e l’urlo soffocati dei suoi intensissimi ritratti, che tanto influenzarono Edvard Munch.