«Che emozione i colori della Svizzera sull'Empire State Building»
Dalla fisica alle Nazioni Unite, dai negoziati multilaterali alla direzione di uno dei principali centri di sminamento umanitario internazionali (GICHD), Stefano Toscano, ticinese, lavora da quasi 30 anni nella diplomazia svizzera. Il suo percorso professionale, si intreccia con la tradizione elvetica del dialogo, della neutralità e della costruzione di ponti tra culture e nazioni. Alla guida del Geneva International Centre for Humanitarian Demining (GICHD), Toscano ha portato avanti con determinazione una missione di alto valore morale: liberare il mondo dalla piaga delle mine antiuomo.
Stefano Toscano, partiamo dal suo percorso professionale: quali sono state le tappe più rilevanti della sua carriera, dalla formazione accademica ai ruoli diplomatici, fino alla direzione del GICHD?
«Scegliere la carriera diplomatica, con mia moglie, è stato un momento cruciale per me e la mia famiglia. La carriera diplomatica è sì una professione, ma anche uno stile di vita: nomade, caratterizzato da continui cambiamenti personali e professionali. Ogni incarico ha avuto un suo valore, ma i ruoli occupati all’estero - a Bonn, New York e Il Cairo -hanno lasciato ricordi particolarmente vividi. Anche la direzione del GICHD occupa un posto speciale nella mia memoria. Questo grazie alla nobile causa promossa dal centro, lo sminamento umanitario, ai colleghi e ai partner con cui ho avuto il privilegio di collaborare, e alla Ginevra internazionale, un luogo unico d’incontro, azione e innovazione».
Ci sono aspetti della sua infanzia o esperienze significative che ritiene abbiano influenzato i valori guida della sua carriera?
«Ritengo che il «gene svizzero» mi abbia particolarmente marcato. Mi riferisco a cultura del dialogo, ricerca continua del compromesso, democrazia diretta, federalismo e tradizione umanitaria. Questi aspetti hanno plasmato il mio approccio diplomatico, facendomi ad esempio apprezzare il multilateralismo quale luogo unico dove forgiare soluzioni a problemi comuni come pure la democrazia e lo Stato di diritto quali antidoti all’arbitrarietà. Inoltre, il fungere da costruttore di ponti è un tratto distintivo della diplomazia svizzera».
Lei ha lavorato alle Nazioni Unite a New York in un periodo storico delicato, subito dopo gli attentati del 2001. Quali sono stati gli episodi più significativi di quell’esperienza?
«Sono arrivato a New York con la mia famiglia nell’estate del 2002, quasi un anno dopo gli attentati dell’11 settembre. Sebbene il loro impatto fosse ancora palpabile, non era più il tema dominante delle conversazioni quotidiane. Durante quegli anni ho conosciuto a fondo le Nazioni Unite e il ruolo che la Svizzera può giocare in quell’organizzazione. L’ONU rappresenta un’istituzione fondamentale per le relazioni internazionali - un ruolo, il suo, che va rafforzato ulteriormente. Ricordo con emozione il 2002, quando la Svizzera è diventata Stato membro dell’ONU. Vedere in quell’occasione l’Empire State Building illuminato con i colori della Svizzera è stato emozionante».
Nel 2011 Lei era in Egitto in veste diplomatica durante la rivoluzione egiziana. Come ha affrontato le complessità di quel periodo?
«Siamo arrivati in Egitto nell’estate del 2010, con Hosni Mubarak ancora al potere. Sei mesi dopo, il 25 gennaio 2011, è scoppiata la rivoluzione che, in soli 18 giorni, ha decretato la fine della sua era. Durante quei giorni, era imperativo mantenere la calma e agire rapidamente, adattandosi a una situazione in continuo mutamento, anche a livello famigliare. Il momento era di portata storica, carico di speranze e ambizioni di cambiamento. All’ebrezza iniziale è poi seguita una certa sobrietà - una testimonianza di come le rivoluzioni siano fenomeni complessi, il cui impatto è valutabile solo col tempo. A livello professionale ho potuto vivere in quei giorni il ruolo essenziale giocato da un’ambasciata in tempi di crisi, quale fonte di informazioni preziose per la capitale e di sostegno per i nostri concittadini».
Il passaggio dalla diplomazia alla direzione del GICHD ha comportato cambiamenti importanti nella sua visione del mondo: come queste esperienze hanno arricchito il suo percorso?
«Il passaggio al GICHD non ha modificato i miei valori o la mia analisi delle relazioni internazionali. Tuttavia, la direzione del centro è stata un’esperienza unica da più punti di vista. Ho realizzato appieno l’importanza per un’organizzazione di avere una visione strategica chiara, un posizionamento definito nel settore in cui opera, e relazioni positive e da pari a pari con i partner. Ho pure sentito fortemente l’imperativo umanitario di rispondere ai rischi e alla sofferenza causati dalle mine antiuomo. La Convenzione di Ottawa, la quale mette al bando queste armi, incarna la determinazione che deve essere la nostra, sempre, di far sì che le esigenze militari non prevalgano sulla nostra umanità comune. Una determinazione che, ne sono convinto, può contribuire pure a ritrovare il cammino verso la pace».
Durante il suo lavoro ha avuto modo di collaborare con personalità di spicco e leader internazionali: ci sono stati incontri che hanno lasciato un segno particolare su di lei?
«Ricordo con gratitudine il mio Capo Missione durante lo stage presso l’ambasciata svizzera a Bonn, tra il 1997 e il 1998. Dieter Chenaux-Repond è stato un vero maestro per me: le sue conoscenze enciclopediche, la capacità di individuare l’essenziale e sostenerlo a spada tratta e la sua profonda generosità mi sono stati di vero esempio. Durante il mio incarico a Il Cairo, ho avuto il privilegio di collaborare con il Capo di Nestlé Egitto, Suresh Narayanan. A parte le sue impressionanti qualità di leader, le interazioni con lui hanno rafforzato in me la convinzione che l’approccio «whole-of-Switzerland», promosso dal Consiglio federale nell’attuale strategia di politica estera, sia realmente il modo migliore per difendere efficacemente gli interessi e i valori del nostro Paese».
Guardando alla sua carriera, ci sono momenti che considera pietre miliari sia sul piano professionale sia su quello personale?
«La mia famiglia, e in particolar modo mia moglie, rappresentano la pietra angolare del mio percorso professionale. Senza la loro presenza e sostegno continui, nulla sarebbe stato possibile. Da un punto di vista più strettamente professionale, ci sono stati diversi traguardi significativi, ma uno che mi rende particolarmente orgoglioso è il percorso strategico e relazionale intrapreso dal GICHD negli ultimi anni, con ramificazioni tangibili e durature. Un altro momento memorabile per me è stato il ruolo che ho potuto giocare nell’elaborazione del Programma d’Azione delle Nazioni Unite sulle armi leggere, adottato nel 2001 a New York - un’esperienza multilaterale davvero indimenticabile. Infine, ricordo con soddisfazione il lavoro svolto a Berna, insieme ad altri colleghi, per promuovere una visione più equilibrata del fenomeno migratorio, da ritenere non solo una sfida, ma anche un’opportunità - come ben testimonia la storia del Canton Ticino. Questa visione si è concretizzata nei partenariati di migrazione tuttora promossi dalla Svizzera, che si è distinta come pioniera in questo campo, con accordi sottoscritti con Stati come la Bosnia Erzegovina e il Nigeria».