Con Carlo Conti il Festival si affida a una figura rassicurante
Uno dei grossi problemi che attanagliano l’Italia è stato finalmente risolto. La riduzione del debito pubblico? Macché. Quello dell’immigrazione illegale? Neanche. La sanità pubblica al collasso? Neppure.
È stato designato il nome di chi raccoglierà l’eredità di Amadeus alla testa del Festival di Sanremo, l’unico evento - assieme alle gare della nazionale di calcio - davvero ecumenico di un Paese che in quella interminabile settimana di febbraio quasi si ferma, in modo da pter riversare ogni sua attenzione sul Teatro Ariston e su quanto accade al suo interno e nelle immediate vicinanze. Alla fine la RAI - per la quale Sanremo rappresenta il principale evento nell’ambito dell’intrattenimento nonché un importantissimo veicolo per l’audience e la raccolta pubblicitaria - ha deciso che a prendere il posto di Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna (che ha lasciato non solo il Festival ma anche l’ente radiotelevisivo di Stato) sarà il toscano Carlo Conti, uno dei suoi dipendenti più aziendalisti e autentica «bandiera» di Viale Mazzini.
Una scelta quasi obbligata, nel segno della continuità per ciò che rappresenta il Festival della canzone italiana (che Conti conosce alla perfezione avendolo già guidato per tre anni, dal 2015 al 2017) ma anche perché trattasi di una figura in grado di ridare una «sistemata» ad un evento che nella quinquennale gestione di Amadeus ha sì raggiunto impensabili livelli di audience conquistando quel pubblico di giovanissimi che sembrava irrimediabilmente perduto dalla tv tradizionale, ma che - per certi versi - è andato addirittura oltre, «tiktokandosi» eccessivamente, fin quasi a smarrire quella dimensione nazional-popolare datagli da Pippo Baudo dopo la crisi degli anni Settanta-Ottanta e che lo stesso Carlo Conti, nella sua gestione, aveva attualizzato evitando particolari rivoluzioni e trovando il giusto mélange tra novità e nostalgia, tra tradizione e modernità, senza mai strafare, senza ergersi a tutti i costi protagonista ma anzi, badando bene a lasciare che fossero altri ad apparire sotto i riflettori.
Il segreto di Carlo Conti (a Sanremo ma anche in tutti i «format» di cui è stato ed è tutt’ora protagonista, da quello Zecchino d’Oro che ha riportato ai fasti di un tempo ai programmi «nostalgici» di cui è assoluto campione) sta proprio nel «non protagonismo», nel non andare oltre al ruolo di «bravo presentatore» che non avendo, apparentemente, né arte né parte, sta al servizio dello show e dei suoi protagonisti senza emergere su di loro e sempre mantenendo un atteggiamento composto, elegante che non scade mai nelle provocazioni e neppure nella volgarità. Un personaggio, insomma, che va considerato più che l’erede di quel Pippo Baudo a cui sovente è accostato (un personaggio superlativo ma che proprio in virtù del suo multiforme talento non ci riusciva proprio a tenere al guinzaglio il suo ego e a non mettersi su un piedistallo), una via di mezzo tra il compianto Mike Bongiorno (vero e proprio genio di finta goffaggine e ingenuità del quale proprio in questi giorni si ricorda il centenario della nascita) e un’altra figura storica della radio-tv italiana, Corrado Mantoni, anche lui superbo nell’apparire sempre impacciato e quasi fuori ruolo, ma abilissimo nel reggere i fili dello spettacolo senza mai scadere di tono.
Ecco perché la nomina, almeno per il prossimo biennio, di Carlo Conti alla testa del Festival di Sanremo non può che soddisfare tutti. Perché è garanzia di professionalità, di apertura verso il nuovo - ma sempre in modo elegante e con un fondo di qualità - e nel contempo di non sottovalutazione di quella componente tradizionalista che in Italia continua a rimanere molto forte. Una figura insomma rassicurante, come il Festival di Sanremo che nonostante i mutamenti sociali, le rivoluzioni tecnologiche, le mode e ogni altro sovvertimento, rimane lì, inamovibile, inossidabile simbolo di un’Italia che talora non ci piace ma nei confronti della quale non è possibile non avere un fondo di affetto e di simpatia.