Società

«Con la mia fotografia faccio riflettere sulle trasformazioni della società moderna»

Intervista all'artista e fotografo tedesco, Jürgen Nefzger che questa sera sarà ospite del Festival di letteratura e traduzione Babel di Bellinzona
Jürgen Nefzger accanto a una sua istantanea.
Viviana Viri
15.09.2024 11:00

«Credo che il modo in cui plasmiamo l’ambiente che ci circonda dica molto su noi stessi. È una testimonianza del nostro passaggio, dei nostri gusti e delle nostre esigenze. La fotografia di paesaggio ci permette di mostrare i cambiamenti della nostra società». Da metà degli anni Novanta l’artista tedesco Jürgen Nefzger percorre il territorio francese con la sua macchina fotografica di grande formato. Le sue immagini, spesso spoglie e desolate, raccontano paesaggi urbani dimenticati mostrando il contrasto tra ambiente naturale e infrastrutture umane. Jürgen Nefzger sarà ospite del Festival di letteratura e traduzione Babel questa sera al Teatro Sociale di Bellinzona.

Nella mostra che accompagna Babel (visitabile fino al 25 settembre) per la prima volta vedremo in dialogo le serie di fotografie da lei realizzate percorrendo il territorio francese negli ultimi trent’anni, dai due libri di Hexagone sul «paesaggio fabbricato» e il «paesaggio consumato» a Épuisement, il suo lavoro più recente ancora inedito. Come hai visto cambiare il territorio francese in questi anni?
«Mi sono trasferito nel sud della Francia all’inizio degli anni Novanta per i miei studi alla Scuola Nazionale di Fotografia di Arles (ENSP). In seguito ho vissuto a Bordeaux per tre anni e a Parigi per dodici, prima di stabilirmi a Nizza. Sono stato invitato nel Gers, a Dunkerque e a Clermont-Ferrand in Alvernia. Il mio lavoro fotografico mi ha accompagnato in tutti questi anni senza interruzioni ed è soprattutto legato al mio viaggio attraverso il Paese. Sicuramente in questi anni la Francia è cambiata, come lo è anche la mia visione del Paese. Il paesaggio, che da sempre è al centro del mio interesse, in fondo è una costruzione mentale. Non ho mai lavorato in modo puramente documentaristico su un soggetto, i temi mi arrivavano da esperienze di vita senza che ci fosse un piano iniziale. Oggi mi stupisco nel vedere come i diversi progetti si siano collegati tra loro nel corso degli anni. Al centro c’è quindi la mia sensibilità nei confronti della terra, dell’ambiente e dell’urbanistica. Questa soggettività non mi permette di trarre conclusioni, lancio percorsi di riflessione che alimento con numerose letture di specialisti che mi informano nutrendo anche la mia prospettiva».

Di cosa tratta Épuisement (2024) e da cosa è stato mosso?
«In Épuisement (2024) torno a raccontare un terreno di duecentoventi ettari vicino alla stazione ferroviaria di Aix-en-Provence che per anni è stato utilizzato come discarica selvaggia. È tra le più grandi della Francia e lì, sparsa per terra, troviamo tracce di quasi tutta la nostra società. Il titolo significa proprio questo: esaurimento, delle nostre risorse, ma anche della nostra modalità di consumo. Da allora la discarica è stata resa inaccessibile per futuri depositi, ma tutto giace ancora lì e sta subendo una nuova trasformazione. La natura torna ad invadere gli oggetti e la plastica si sbriciola in microparticelle. L’ultima volta che ci sono stato mentre camminavo in una parte che conoscevo bene il terreno ha ceduto, fortunatamente ne sono uscito illeso. Da questi luoghi veniamo sempre trasformati, penso che ci tornerò finché non avrò la sensazione di aver esaurito l’argomento».

Tra i diversi temi che ha esplorato uno dei più ricorrenti è quello dell’energia atomica. In serie come Fluffy Clouds, ha mostrato paesaggi apparentemente idilliaci, segnati dalla presenza delle centrali nucleari. Colpisce come la bellezza dei luoghi e l’atteggiamento spensierato delle persone che li abitano contrastino in ogni immagine con la presenza di una centrale nucleare. Qual è il messaggio che vuole trasmettere attraverso queste immagini?
«La centrale nucleare è come un monumento nel paesaggio. È un simbolo della modernità. Così le vedeva l’architetto brutalista Claude Parent: come cattedrali all’orizzonte. Spesso sono ubicate lontano dalle città, per questo le troviamo in paesaggi piuttosto bucolici. Le centrali ci ricordano la nostra dipendenza energetica e la nostra sottomissione alle decisioni politiche statali che vengono prese, come nel caso della Francia, senza una reale consultazione della popolazione. Ma l’energia nucleare non riguarda solo le centrali elettriche. La prima serie inizia con una panoramica delle centrali nucleari in Europa, in seguito ho realizzato un lavoro su un bosco occupato da attivisti contro il progetto di sepoltura dei rifiuti radioattivi a Bure e un film Bure, ou la vie dans les bois (2018). Al momento sto lavorando sull’eredità delle miniere di uranio francesi, dove l’inquinamento invisibile è ancora presente in molti siti in tutto il paese».

C’è un luogo che l’ha particolarmente colpita?
«Il più sorprendente è stato sicuramente lo sviluppo urbano attorno al parco Disney, che ricorda molto l’americanizzazione della società francese: case identiche in gated community, ovvero modelli residenziali autosegregativi, recintati e con accesso sorvegliato. In questi nuovi quartieri il contatto sociale è in qualche modo ghettizzato».

Molte delle sue immagini sembrano avere un distacco quasi oggettivo, questo approccio fa riflettere sulle conseguenze dell’urbanizzazione e sulla perdita di identità dei paesaggi moderni. Come lavora sulla creazione di questo sottile contrasto?
«Mi piace fare un passo indietro e agire più come osservatore di una situazione. Lavoro ancora su pellicola con fotocamere di grande e medio formato, sempre su cavalletto. Quindi non sono una persona che sta nel vivo dell’azione, ma piuttosto la osserva lentamente dall’esterno. Questa prospettiva si riflette anche nello stile fotografico e nell’atmosfera che ne risulta. Nel mio lavoro l’idea della contemplazione è centrale. A volte ci dà la sensazione di qualcosa che aleggia nell’aria, come di un temporale che non tarderà ad arrivare».

Già all’inizio degli anni Ottanta Lewis Baltz lasciava intendere la natura sovversiva della fotografia quando ci mette a confronto con un mondo che è in contrasto con le nostre speranze e i nostri obiettivi. Quale pensa sia il ruolo della fotografia oggi?
«Penso che oggi questo confronto sia più essenziale che mai. Credo che la fotografia debba piuttosto interrogare e non affermare: deve evitare di essere dimostrativa o di dare delle lezioni. Il suo compito è quello di far riflettere, di interpellare, Le mie immagini possono essere lette a molti livelli, vorrei che fosse lo spettatore a creare il proprio significato. Non voglio imporre un punto di vista».

Nel suo lavoro, c’è una forte critica alla modernità e alla gestione delle risorse naturali. Come pensa che le sue fotografie si inseriscano nel dibattito sulla sostenibilità e sul futuro dei paesaggi europei?
«Sono cresciuto in Germania negli anni Ottanta durante il boom del Partito Verde e del movimento ambientalista. Dopo Chernobyl la mia posizione sul nucleare non è mai cambiata. Trent’anni fa non avrei mai immaginato che i climascettici resistessero fino ad oggi. Fortunatamente mi sembra che siano una specie in via di estinzione, ma credo purtroppo che ci voglia ancora molto tempo prima che questo accada. In questo momento abbiamo bisogno di misure concrete tra i paesi, con accordi sul clima che stabiliscano un vincolo reale e di portata internazionale. Non possiamo più limitarci a smistare vasetti di yogurt. Con il mio lavoro cerco allo stesso tempo di interessarmi al terreno che calpesto con i piedi: mi dedico a ciò che mi accade intorno, riflettendo sulle questioni macroeconomiche attraverso quello che ho più vicino».

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