«Con vetro e legno rifletto sulla condizione umana»
Paul Klee sosteneva che l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è. Proprio come quelle forze della natura che, nelle opere del Maestro Arcangelo Sassolino, si mettono in dialogo con l’osservatore. «Sono molto interessato a rimanere in aderenza con ciò che è reale, a come le cose si mettano costantemente in atto e in conflitto. A volte trovando un equilibro, altre perdendosi nell’instabilità o dissipandosi nella materia. Per esprimere questi concetti lavoro molto con questioni legate alla fisica, dove gli aspetti ingegneristici, nel loro potenziale cedimento improvviso, nelle fragilità e nei limiti diventano metafora del nostro essere», racconta Sassolino.
Una metafora che, nelle sue opere, vive anche di una continua tensione esplorando quel lato più oscuro dell’animo umano, con la sua insita curiosità di vedere se davvero possano arrivare a un punto di rottura. È cosi?
«Per soddisfare questa curiosità basterebbe assistere ai nostri test in studio, dove rompiamo costantemente materiali, come ad esempio le lastre di vetro quando proviamo a imbarcarle con delle pesanti pietre, cercando il giusto equilibrio. Ma è proprio per tutte queste prove che, in pubblico, ci sono tutti dei meccanismi di sicurezza per impedire un cambio di stato dell’opera che, salvo in alcuni casi voluti, non sarebbe richiesto. È però affascinante constatare come questi oggetti vengano percepiti come degli inneschi, dei quali non conosciamo la durata e che fanno immaginare un ipotetico conto alla rovescia, che potrebbe durare in eterno».
Tra massi posati su vetri sottili, pneumatici costretti nelle morse, enormi blocchi di cemento appesi e macchinari che sfidano l’immaginazione umana, ci sono momenti dove con i suoi collaboratori avete pensato di esservi spinti troppo al limite?
«Ho una squadra di assistenti, ognuno con personalità e competenze diverse. Eppure, ci fosse mai una volta che, di fronte alla mia idea più assurda, uno solo di loro mi dicesse che stiamo esagerando. Invece partiamo subito con grande entusiasmo nel cercare di realizzarla: questa è una cosa buffa e bellissima allo stesso tempo che mi fa capire come, al di là delle nostre differenti peculiarità, tutti guardiamo nella stessa direzione creando un’energia che penso sia uno dei grandi segreti del nostro lavoro. Ci sono tuttavia delle volte in cui ci rendiamo conto che alcuni macchinari che abbiamo realizzato sono diventati ingestibili: anche questo è comunque un aspetto estremamente affascinante della nostra ricerca. Per la loro pericolosità può capitare di mostrarle ma sempre all’interno del nostro laboratorio in condizioni di totale sicurezza».
Come è nata questa ricerca artistica?
«Da un’auto indagine, la più onesta possibile, nella quale ho fatto i conti con la storia, da quello che ci ha preceduto. Ci sono stati grandissimi artisti italiani che, in momenti storici come il futurismo, l’informale e l’arte povera hanno fatto cose incredibili che ho studiato a fondo per le loro visioni e per le quali mi sento debitore. Ma con il tempo mi sono reso conto di riuscire a camminare in un ambiente che ho sentito sempre più mio e per questo ho voluto guardare avanti. E farlo per me ha voluto dire applicare la fisica ai materiali, indagandone la tenuta, l’interno, il DNA, un po’ come quello che succede nella ricerca scientifica, cercando di dare così una nuova anima alla scultura, entrando in territori che non sono ancora stati esplorati. Nella mostra alla galleria Repetto potrete vedere delle travi di legno, recuperate da un’alluvione, agganciate da un pistone idraulico: nel momento in cui vengono spezzate, hanno la possibilità di cantare un’ultima volta, facendo sentire la propria voce in un tentativo di resistenza contro la forza implacabile della tecnologia».
In questa ricerca è più importante il materiale che viene spinto al limite o quelle forze immateriali, come la pressione, la gravità e il tempo che conducono a quel processo di trasformazione dell’opera?
«Sono ossessionato dalla questione del continuo passare del tempo e sento il bisogno di cristallizzare un pensiero che sia in qualche modo assoluto. In questo senso annaspo tra materiali diversi, come se mi venissero addosso mentre osservo la realtà, e mi interessa caricarli da quelle forze immateriali per renderli instabili e metafora di chi siamo come individui. Ogni oggetto, anche il più comune, mi fa pensare a chi lo ha progettato e realizzato, aprendo dentro me una tridimensione senza limiti che voglio esplorare: è per questo che non sono tanto interessato alla forma quanto a quello che non vediamo e percepiamo ma che riesce tuttavia ad attivare energie, suscitando in noi immense emozioni».
E quali emozioni vorrebbe che rimanessero nelle persone che verranno a visitare la sua esposizione luganese?
«Mi piacerebbe che portassero via una piccola riflessione sulla condizione umana. Senza drammi o pessimismo, ma con l’ispirazione e la voglia di guardare il mondo che ci circonda andando oltre l’apparenza».
Magari intuendo le leggi e i limiti che la fisica ci impone. Ma lei adesso vede dei limiti nella sua arte?
«Forse il vantaggio di invecchiare è che, se si fa il proprio percorso in modo onesto e senza scorciatoie, arriva il momento in cui in qualche modo fai pace con il mondo e con la vita. Questo fa sì che subentri sempre più coraggio e ci si ponga sempre meno limiti. Quindi ho come l’impressione che presto proporrò qualche nuova assurda idea ai miei collaboratori. I quali, come detto in precedenza, anziché farmi desistere si metteranno subito al lavoro per realizzarla. E pensare a questo mi dà una motivazione incredibile a proseguire in questo mio percorso artistico, che da ossessionato del tempo ho intenzione di godermi in ogni suo attimo».