Scenari

Dopo l'Ucraina, la miccia balcanica

In Bosnia si riaccende la protesta serba, mentre la Slovacchia entra nella KFOR – «Mosca sta allargando la sua influenza»
© Radivoje Pavicic
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
16.03.2025 09:00

Spesso, dalla Guerra Fredda in poi, gli Stati Balcanici sono stati un «laboratorio» e un teatro in cui le Superpotenze hanno continuamente bilanciato (in piccolo) iniziative belliche e belliciste, ma anche influenze, pressioni e diplomazie, prima di sperimentarle su più larga scala. Ecco perché quanto sta avvenendo oggi nei Balcani può essere utile per riflettere sul come potrebbero evolversi gli equilibri futuri all’interno dell’Europa e della NATO. «Il pericolo non viene più dalla Russia, ma dai Balcani», ha scritto nei giorni scorsi su Il Fatto Quotidiano, Masssimo Fini. «Mentre tutti gli occhi sono puntati sulla guerra russo-ucraina, sta per riesplodere la polveriera dei Balcani che rischia di coinvolgere Stati europei che sono ben più vicini a noi che l’Ucraina», ha precisato il giornalista sull’onda delle parole di Milorad Dodik, che è il presidente della Repubblica Srpska, che a sua volta è uno dei tre «settori» della Bosnia di oggi, divisa tra serbi, la Repubblica Srpska, appunto, islamici e croati. «D’ora in poi i serbi di Bosnia - ha dichiarato Dodik - non accetteranno più alcuna decisione presa dallo Stato bosniaco». Punto e a capo. Ma purtroppo questa non è l’unica novità che arriva dai Paesi dell’ex Jugoslavia. A spostare gli equilibri ci si è messa anche la Slovacchia «che ha deciso di ripristinare il suo impegno nei confronti della Forza del Kosovo della NATO (la KFOR) dopo un’assenza di 15 anni», spiega Andrea Molle, professore associato di scienze politiche e relazioni internazionali alla Chapman University di Orange in California e ricercatore per il think tank Start InSight di Lugano. «La proposta del Parlamento slovacco di prendere in considerazione un dispiegamento di un massimo di 150 persone entro il prossimo anno potrebbe avere implicazioni significative per il rapporto già delicato e spesso volatile tra Kosovo e Serbia».

La KFOR oggi

Oggi la KFOR comprende circa 4.302 truppe provenienti da 29 Nazioni. I più grandi contingenti di truppe arrivano da membri chiave della NATO, come Italia, Turchia, Germania, Ungheria e Stati Uniti. Il dispiegamento in corso - a cui da 25 anni partecipa anche la Svizzera come partner della NATO - è ampiamente considerato come un elemento cruciale per preservare la stabilità in Kosovo e nei più ampi Balcani occidentali. La KFOR opera non solo come deterrente contro potenziali escalation di violenza interetnica, ma anche come meccanismo di supporto chiave per iniziative diplomatiche chiave volte a risolvere controversie di lunga data, in particolare tra Kosovo e Serbia.

La partecipazione della Slovacchia

Orbene, cosa cambierebbe se anche la Slovacchia si impegnasse nella KFOR? In prima battuta «la Slovacchia è uno dei cinque Stati membri dell'Unione europea, insieme a Cipro, Romania, Spagna e Grecia, che non hanno riconosciuto il Kosovo come stato indipendente», continua l’esperto. Ecco perché «la decisione di contribuire a KFOR in questo frangente solleva domande sulle motivazioni di Bratislava e sulle potenziali conseguenze per la stabilità regionale». Tutto questo, quando il primo ministro slovacco, Robert Fico ha suggerito che il coinvolgimento della Slovacchia nella KFOR potrebbe non essere necessariamente in linea con la più ampia missione di promuovere la sicurezza e la cooperazione all'interno della regione. «Fico ha lasciato intendere che la presenza della Slovacchia potrebbe essere più focalizzata sulla raccolta di informazioni e sul monitoraggio degli sviluppi in Kosovo piuttosto che contribuire attivamente agli obiettivi operativi stabiliti dal comando della NATO». Una dichiarazione sicuramente schietta che «introdurrà un ulteriore livello di complessità alla missione multinazionale KFOR, poiché diversi programmi nazionali all'interno della forza potrebbero avere un impatto sulla coesione generale».

L’influenza di Mosca

Tutto questo mentre la Russia cerca di mantenere la propria influenza nei Balcani e prevenire un’ulteriore espansione occidentale. «Mosca - prosegue Molle - ha storicamente sostenuto la Serbia nella sua opposizione all’indipendenza del Kosovo, usando la questione come leva per mantenere Belgrado allineata con gli interessi russi. La Serbia, pur bilanciando le sue ambizioni dell’UE, mantiene stretti legami con la Russia, specialmente nella cooperazione militare e nella dipendenza energetica. Se il Kosovo si unisse alla NATO, consoliderebbe l'influenza occidentale nella regione, chiudendo efficacemente le manovre geopolitiche russe nei Balcani. Inoltre, se la Serbia dovesse aderire all’UE, indebolirebbe l’appoggio strategico della Russia in Europa. Mosca, quindi, lavora attivamente per alimentare le tensioni, diffondere la disinformazione e sostenere le fazioni nazionaliste per ostacolare qualsiasi progresso verso l’integrazione dell’UE e della NATO».

Guardare oggi ai Balcani significa dunque gettare un occhio a quanto sta succedendo - quasi sotto traccia - a due passi dalle principali capitale europee. «Molti relazioni internazionali e analisti ed esperti geopolitici - afferma l’esperto - sostengono che un conflitto tra Russia e Occidente non è solo una possibilità, ma un’inevitabilità. Tutti sembrano essere d'accordo sul fatto che la Russia probabilmente eviterebbe di impegnarsi in un conflitto militare su vasta scala con la NATO, tuttavia la domanda non è se si verificherà un tale confronto, ma piuttosto quando e come si manifesterà». Una delle ipotesi è che Mosca potrebbe perseguire «una strategia di guerra ibrida, una guerra che fonde tattiche convenzionali e non convenzionali per raggiungere i suoi obiettivi senza attraversare le linee rosse che innescherebbero una risposta militare diretta dall’Occidente. Questo approccio include guerre per procura intensificate in regioni strategicamente significative in cui la Russia può esercitare influenza sostenendo governi alleati, gruppi insorti o forze paramilitari senza un coinvolgimento diretto. I conflitti in Ucraina, Siria e varie parti dell'Africa servono come esempi contemporanei di questo metodo».

La possibile risposta

Molle è dunque sicuro. «I Balcani, in particolare il Kosovo e la Serbia, servono come caso di studio critico, anche se spesso sottovalutato, per analizzare la strategia geopolitica mutevole della Russia». Anche perché «l’obiettivo finale del Cremlino è quello di erodere la coesione occidentale garantendo che le divisioni all’interno dell’UE e della NATO persistano e quindi consolidando lo status della Russia come potenza dominante. In assenza di una risposta unificata e strategica da parte dell’Occidente, la Russia continuerà a sfruttare queste fratture interne per mantenere la sua influenza nei Balcani. Senza uno sforzo concertato per contrastare le tattiche ibride di Mosca, la posizione della Serbia rimarrà un anello debole nel più ampio quadro di sicurezza euro-atlantico, lasciando la regione vulnerabile a un'ulteriore destabilizzazione».

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