L'intervista

«Due Stati? Mia figlia Elly ci crede, io non tanto»

Dal kibbutz a Lugano: la storia di Melvin Schlein, padre della segretaria del PD, e le sue preoccupazioni – «L'antisemitismo l'ho provato sulla pelle»
© CdT/Chiara Zocchetti
Davide Illarietti
12.11.2023 11:00

Il professor Schlein è un uomo pacato di 84 anni, occhi azzurri e accento americano, che ti accoglie con un largo sorriso sulla soglia di una villetta a schiera ad Agno. «Cà di Mel» è scritto all’ingresso, dal diminutivo di Melvin con cui è chiamato in famiglia. Niente simboli ebraici o mezuzah (la preghiera di benvenuto) sulla porta. «Non sono particolarmente osservante», confessa. «Non lo sono mai stato».

Studi e famiglia hanno riempito la vita di questo professore di scienze politiche ora in pensione dopo una prestigiosa carriera chiusa alla Franklin University di Lugano. Il salotto è colmo di libri e foto delle figlie, che ormai vivono lontane. Elly, la più piccola - «Elenina» - è stata eletta segretaria del Partito Democratico a marzo. Susanna Schlein, consigliera dell’ambasciata italiana ad Atene, è stata bersaglio di un attentato anarchico a dicembre scorso, per fortuna uscendone incolume. Entrambe sono cresciute ad Agno, hanno fatto le elementari e le medie qui, poi il Liceo di Lugano 1.

«Oggi la gente mi chiede delle figlie quando mi incontra in giro», scherza la moglie Maria Paola Viviani, professoressa, ordinario di Diritto pubblico comparato a Varese. «C’è chi è «figlio di» e chi è «genitore di», cosa possiamo farci?». Mentre fa gli onori di casa - «caffè?» - conferma che in famiglia le origini israelite non sono molto sentite - «non ci hai mai raccontato niente, Mel» - e il marito quasi si scusa: «Nessuno mi ha mai fatto molte domande» sorride.

Tra kibbutz, Bologna e Lugano

Eppure il professor Schlein ne ha di cose da raccontare. Come figlio di ebrei ashkenaziti fuggiti nel 1913 dall’allora Impero Austro Ungarico, cresciuto nel New Jersey - «eravamo poverissimi, altro che stereotipi» - e anche come esperto di politiche internazionali con una carriera quarantennale, passata anche dalla sede di Bologna della Johns Hopkins University per poi trasferirsi negli anni ‘80 a Lugano. Una tesi di dottorato sulla riunificazione delle Due Germanie - «ci vidi giusto, con vent’anni d’anticipo» - ed esperienza immersiva nel contesto israelo-palestinese: nei primi anni dello Stato di Israele Schlein era là, ha lavorato come volontario nel kibbutz di Nahal Oz, a pochi chilometri da Gaza, teatro di scontri il 7 ottobre di quest’anno.

«La situazione al confine con la Striscia non è mai stata semplice» racconta il professore per esperienza diretta. «Anche negli anni ‘60 dormivamo con il mitra sotto il letto». Davanti alle immagini dei massacri di un mese fa la reazione in casa Schlein è stata di «orrore e grande preoccupazione» anzitutto per parenti e amici che vivono in Israele - «ne ho diversi» - ma anche per il contesto generale. «Non è la prima volta che assistiamo a un esacerbarsi del conflitto, spesso a seguito di fasi di distensione come quella inaugurata dagli accordi di Abramo, e devo dire che non sono molto ottimista sulle prospettive di risoluzione».

Oltre alle brutte notizie dal fronte mediorientale, a preoccupare il professore sono le manifestazioni di antisemitismo più vicine, nel cuore dell’Europa. «Anche questa purtroppo non è una novità, ma la frequenza degli episodi e i numeri che arrivano ad esempio dalla Francia fanno impressione» constata.

«Io non sapevo, gli altri sì»

Non è una novità, e Schlein lo sa bene. La giovinezza nel New Jersey, negli anni ‘40 e ‘50, gli ha insegnato come il germe dell’antisemitismo attraversa continenti e generazioni. «L’ho imparato sulla mia pelle, pur crescendo in una famiglia che non andava quasi mai in sinagoga. Per gli altri un ebreo è sempre un ebreo». Nel sobborgo dove viveva - i genitori avevano un negozietto di abiti - gli emigrati dall’Europa «portarono con sé i pregiudizi e i conflitti da cui i miei genitori erano fortunatamente scappati in tempo» racconta Schlein. Mentre nei campi di concentramento venivano sterminati i cugini e gli zii rimasti a Leopoli, città d’origine degli Schlein (oggi ucraina, polacca prima del ‘45) il piccolo Melvin veniva bullizzato come «sporco ebreo» dai coetanei est-europei, riuniti in «gang». «Una volta mi riempirono di lividi. Come molti ebrei ho scoperto di esserlo in questo modo: io non lo sapevo, me lo hanno insegnato gli altri».

Abbiamo sempre parlato molto di politica, forse questo spiega i percorsi seguiti dalle nostre figlie

Dibattiti in famiglia

Al centro del salotto c’è un grande televisore dove Schlein segue l’attualità assieme alla moglie. Politica italiana - «naturalmente» - e cronache del Medio Oriente in famiglia sono seguiti con interesse e toni accesi, ammettono i coniugi. «Abbiamo sempre parlato molto di politica, forse questo spiega i percorsi seguiti dalle nostre figlie» riflette il professore. A proposito di dibattiti, il padre condivide sostanzialmente l’orientamento della sinistra italiana sul conflitto in Israele. «Elly ha invocato con forza la tregua umanitaria. Non ci vuole un esperto per capire che una decina di comandanti di Hamas uccisi non valgono migliaia di vittime civili, il prezzo dell’operazione militare è sproporzionato e per Israele è un errore strategico».

A chi accusa il Partito Democratico di essere stato più «tiepido» di altre sinistre europee (tedesca, inglese) nel distanziarsi da Hamas, Schlein padre risponde che «non è vero» con tono perentorio. «C’è stata e c’è una ferma condanna». Anche se ammette che «una certa parte della sinistra» a causa di posizioni post-colonialiste «purtroppo ha finito per unirsi alle file dell’antisemitismo storico, quello di destra che è sempre lì, non se n’è certo andato. È un male che ci portiamo dietro, sempre pronto a risvegliarsi e ora ha trovato nuova forza».

«Poco ottimista»

Quando pensa al futuro il prof Schlein ripiega su un pessimismo frutto - sembra - di una sofferenza antica. Ricorda i tempi della gioventù, in cui girava per il New Jersey con in mano la scatola delle offerte per il movimento sionista. La scatola rimaneva quasi sempre vuota. «Sognavamo un paese democratico e aperto, in buoni rapporti con i vicini, una casa per un popolo in fuga dagli orrori dell’Olocausto che avevamo da poco scoperto» . Un sogno che si è sgretolato una guerra dopo l’altra, sullo scoglio di un’intolleranza crescente da una parte e dall’altra. Eppure, conclude il professore, «ci sono voci pacifiste in Israele e anche a Gaza. Oggi sono diventate una minoranza silenziosa: ma io voglio credere che quello spirito e quel dialogo, che a lungo si è costruito, non siano morti tra le urla degli opposti estremismi. Almeno lo spero». Di soluzioni facili all’orizzonte per ora non ne vede, il professore. «Tutti parlano della soluzione dei due Stati. Anche Elly, ma io le ho detto: ci credo poco. Implicherebbe una strutturazione delle relazioni e un riconoscimento istituzionale che una parte della società araba non può accettare».

Con il muro di Berlino Schlein ci ha indovinato. C’è da sperare che si sbagli questa volta. Il conflitto attuale non è passeggero, anzi, è destinato a durare «molto molto a lungo e non promette niente di buono». Almeno a vederlo dalla finestra di una villetta a schiera, sulla collina di Agno, mentre fuori si fa sera.

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