Ecco dove vanno a finire i soldi dei frontalieri
Il nuovo polo sanitario pagato con i soldi dei frontalieri, a Lavena Ponte Tresa, doveva essere pronto da un po’. Iniziato nel 2020, il cantiere si è bloccato durante la pandemia per un problema con la ditta appaltatrice. Concorso da rifare, risultato: ruspe ferme per tre anni. A marzo dovrebbero ripartire i lavori per un valore di circa un milione di euro, di cui 650mila forniti dalle tasse di chi ogni mattina fa la coda sul ponte della Dogana per andare a lavorare.
È solo uno degli esempi - non il più facile - di come vengono spesi i ristorni dei frontalieri versati ogni anno dalla Svizzera all’Italia. Nel 2022 hanno raggiunto un nuovo record: 100 milioni solo dal Ticino (107 considerando anche Grigioni e Vallese), quasi il doppio rispetto a 10 anni fa. La lista degli importi girati ai Comuni e alle Province di confine non è difficile da reperire: è esibita come un vanto dal Pirellone, affamato di buone notizie in tempi di affanno economico. Il rendiconto di come questi soldi vengono spesi invece non viene reso pubblico - il Ministero dell’Economia e delle Finanza italiano fornisce una copia «riservata» al Cantone - e non resta che contattare uno a uno i fortunati beneficiari.
La voragine contabile
In cima alla lista c’è Como. Con 7,2 milioni ricevuti nel 2021, il capoluogo lariano è in assoluto il Comune che beneficia di più della «pioggia» di franchi provenienti dalle imposte alla fonte. I suoi 5.272 frontalieri hanno contribuito, tra le altre cose, a pagare un altro cantiere problematico, ossia quello delle paratie del lungolago. Iniziato 15 anni fa e bloccato più volte tra fallimenti e inchieste giudiziarie, dovrebbe concludersi l’anno prossimo: costo complessivo 48 milioni di euro, il preventivo era di 12 milioni. Una voragine in cui stabilire quanti soldi «ticinesi» siano spariti è difficile persino per il sindaco: «Mi sembra sacrosanto pretendere di sapere come vengono spese le imposte versate in Ticino» concede Alessandro Rapinese e promette: «Mi informerò con i miei uffici». Ma nei giorni successivi non risponde più al telefono.
Il calcolo rischia di essere infinito come il cantiere e, a onor del vero, le variabili sono numerose. In base agli accordi del 1974 il 90 per cento dei contributi «stornati» doveva essere utilizzato per finanziare infrastrutture viabilistiche. La quota destinata invece alle «spese correnti» dei Comuni di frontiera era del 10 per cento, poi salita fino al 30 per cento nel corso dei decenni. Nel 2020 è stata fissata al 50 per cento. Significa che un franco su due inviato oltre confine non viene investito, come da accordi originali, nella viabilità frontaliera ma in tutto e di più: scuole, strutture sportive, edilizia pubblica, trasporti, stipendi di funzionari e operai comunali.
«Esigenze che cambiano»
«Mi sembra giusto» interviene Massimo Mastromarino, sindaco di Lavena Ponte Tresa nonché presidente dell’Associazione comuni di frontiera. «Inizialmente il vincolo di investire nelle opere viabilistiche era pensato per un territorio ancora carente, come quello degli anni ‘70. Poi le strade sono state fatte. Adesso abbiamo bisogno di altri servizi».
La cittadina di frontiera, 5.700 abitanti di cui 1.495 frontalieri, è terza per quantità di ristorni nella provincia di Varese (2.05 milioni su 30 totali) preceduta da Luino (3,4 milioni) e Malnate (2,3). «In un cinquantennio i nostri abitanti sono raddoppiati per via dell’immigrazione di persone che si trasferivano qui per lavorare in Ticino, soprattutto dal Sud Italia. È normale che a fronte di una crescita simile anche la richiesta di servizi sul territorio è cresciuta a dismisura».
A crescere non poco è stato anche il surplus di guadagno che i Comuni incassano grazie al franco forte. Se i 55,5 milioni di franchi ristornati nel 2011, ad esempio, valevano 46 milioni di euro (oggi sarebbero 57), nel 2015 la svolta legata all’abolizione della soglia minima ha regalato, dal giorno alla notte, un più 16 per cento di budget nella fascia di confine: i 73,1 milioni di franchi riversati quell’anno valevano 70,9 milioni di euro. Fino al record dei giorni nostri: 100 milioni di franchi di ristorni equivalgono a 104 milioni di euro al cambio attuale.
Il modello Verbania
Su queste cifre da parte delle autorità italiane «non vengono effettuate verifiche puntuali» precisa Mastromarino. «Negli anni non si sono mai riscontrati casi di abuso, e agli enti locali viene riconosciuta una certa autonomia». Questo non toglie che, nei singoli Comuni, esista un certo dibattito su come viene spesa la «manna» svizzera. Nel Varesotto ad esempio secondo Matteo Bianchi, ex deputato leghista e oggi consigliere comunale, le strade «a groviera» meriterebbero qualche intervento in più. Varese non riceve ristorni, in quanto la quota di lavoratori frontalieri è inferiore al 4 per cento del totale: è un’altra clausola del vecchio accordo che dovrebbe venire meno in futuro. Dal 2025 la soglia sarà ridotta al 3 per cento e allora «anche noi dovremmo potere finalmente beneficiare dei ristorni» sottolinea Bianchi. «Per quella data sarebbe auspicabile ragionare in termini di mobilità integrata della grande metropoli dei Laghi, composta da Como, Varese e Lugano. Guardare ognuno al suo giardino ormai ha poco senso. Anche se non sarebbe male usare i fondi per colmare il gap con il Ticino anche nelle scuole e nelle infrastrutture sportive».
Il modello a cui guardare forse è Verbania. Negli ultimi anni la città sul Maggiore ha investito i fondi frontalieri esclusivamente in opere pubbliche: un parcheggio vicino al porto di Intra, il lungolago di Pallanza (rifatto in un anno, a un centesimo del costo di quello comasco), rotatorie e asfaltature di strade. I 2,2 milioni di euro incassati annualmente dai frontalieri qui «vengono ancora utilizzati esclusivamente in cantieri infrastrutturali» assicura la sindaca Silvia Marchionini, che ha fama di amministratrice pragmatica. «Non li usiamo per spese correnti. È una scelta». Forse anche per questo le differenze con la Svizzera, girando per la città, si notano un po’ meno.