Ernesto Sirolli, imprenditori si nasce o si diventa?
Il prossimo 5 ottobre, presso l’Asilo Ciani di Lugano, sarà protagonista dell’ated innovation day. Per parlare di imprenditorialità, ma anche per osservare le presentazioni – in formato speed date – dei sei finalisti selezionati nell’ambito del Project Innovation, iniziativa promossa proprio da ated e rivolta alle start-up di casa nostra. Stiamo parlando di Ernesto Sirolli, classe 1950, vera e propria istituzione del settore. Abruzzese, economista e politologo, ha concentrato i suoi studi sullo sviluppo economico locale. Potremmo definirlo un facilitatore, pensando anche al Sirolli Institute for International Enterprise Facilitation fondato nel 1985. In qualità di oratore pubblico, per contro, ha guadagnato i riflettori grazie al suo discorso per la piattaforma TEDx, Shut Up and Listen, con cui ha raggiunto circa 4 milioni di visualizzazioni. Lo abbiamo intervistato.
Cominciamo
con una domanda apparentemente banale: imprenditori si nasce o si diventa?
«Sono anni che mi diverto, al riguardo. Prendendo in giro i professori che
insegnano Entrepreneurship, imprenditorialità. Li prendo in giro perché tutti
questi professori, di origine anglosassone, sostengono che la parola entrepreneur
sia di origine francese. Ecco, io li prendo in giro e mi arrabbio pure un
pochino, visto che noi abbiamo una parola, in italiano, che se tu la vedi
scritta accanto a quella francese è praticamente la stessa: imprenditore. E
così mi sono detto: qual è la parola madre da cui derivano entrambe? Per anni
mi sono divertito a cercarla, trovandola a Londra, alla Royal British Library,
in un dizionario. E l’origine evidentemente è latina, prima ancora indoeuropea.
L’imprenditore, di fatto, è colui che afferra per primo un’opportunità. Quindi
sì, venendo alla domanda, imprenditori si nasce. Perché è un aggettivo, una
qualità. È come dire che uno è coraggioso. E attenzione: per i latini non c’era
nessuna connotazione di affari. Lo stesso per i britannici, a suo tempo. Prima
del 1860, la sola volta che il termine venne usato fu in un libro del 1460, nel
quale un nobile veniva descritto con la parola entrepreneur. Era,
appunto, intraprendente in battaglia».
Questione
risolta, dunque. Ma allora perché, come ha fatto lei, inventare un metodo per far
emergere lo spirito imprenditoriale nelle persone?
«Lo spirito imprenditoriale è un tratto distintivo del carattere. Ma
l’imprenditorialità deve essere organizzata, altrimenti difficilmente uno può
trasformare la propria passione in lavoro. Ed è proprio questo l’aspetto sul
quale ho lavorato per 45 anni».
Ed è il
motivo per cui ated l’ha invitata a Lugano…
«Sì, quando hanno visto che cosa insegno, e come, mi hanno chiesto di passare
dal Ticino. E di valutare il lavoro che i ragazzi sotto l’egida di ated
svolgono. Sarà il ventottesimo Paese, la Svizzera, in cui presenterò il mio
metodo».
Molti
imprenditori di successo, soprattutto in America, hanno avviato la loro
attività prima ancora di laurearsi. In questo senso, quindi, e ribadito che
imprenditori si nasce, quali competenze devono sviluppare i ragazzi di oggi per
diventare, ad esempio, il nuovo Steve Jobs?
«Questa, indubbiamente, è l’era degli imprenditori. Imprenditori che vengono
descritti come gli esploratori della nostra epoca, mentre i manager sono i
coloni che, in un secondo momento, organizzano tutto ciò che è stato scoperto. La
chiave dei nostri anni è la sostenibilità. Utilizziamo tecnologie, al momento,
vecchie anche di cento anni. Ma l’utilizzo che ne facciamo non è sostenibile,
pensando che al mondo siamo 8 miliardi. Gli imprenditori di oggi, dunque,
devono trovare modi per avere cura delle risorse e delle persone. Per educare,
anche. È un’opportunità straordinaria, perché si tratta di reinventare tutto
ciò che abbiamo conosciuto finora».
Che
ruolo può avere, in questo senso, la Svizzera?
«Prendete i ragazzi di ated, con una passione smisurata per la robotica. Sono
ragazzi eccezionali, competono in tutto il mondo. E la Svizzera può e deve
avere cura di questi ragazzi, coltivandone il talento. Il vostro è un Paese
pulito, semplice, che ha a cuore il destino delle persone. Applicando questa
cura anche al talento, la Confederazione farà grandi cose».
Perché
un imprenditore ha bisogno di cura?
«Perché trasformare un’idea o una passione in un’azienda di successo non è un
compito facile. Soprattutto, non è qualcosa che un imprenditore può fare da
solo. Lo dice la storia. Non esiste un singolo imprenditore che, per conto
proprio, è riuscito a metter su un’azienda di successo. Ho studiato le cento
imprese più grandi e iconiche al mondo. E ho sempre trovato chi, su un fronte o
un altro, internamente poteva dire di no a Gates, Jobs e via discorrendo. A chi
viene da noi con un’idea, per dire, noi chiediamo: chi sei tu nella cosiddetta
trinità della gestione? Sei la persona di prodotto, di mercato o di finanza?
Perché solo creando una squadra, solo mettendo al posto giusto le persone, è
possibile vendere un’idea e, allo stesso tempo, badare ai soldi. È questo il
principio di una start-up. Altrimenti, una passione rimane una passione. Un
hobby. E non un lavoro vero».
È anche
vero che, da questa parte dell’Atlantico, noi europei siamo cresciuti con il
mito degli americani che, alla Steve Jobs, costruivano un impero partendo dal
garage di casa. Era tutto fumo, quindi?
«Sicuramente, il modo in cui è stata pubblicizzata la storia di Apple era
sbagliato. Jobs, senza Wozniak, non sarebbe stato nessuno. Ma anche senza Valentine,
uno dei primi investitori. Erano tre persone che, di fatto, decisero di
lavorare assieme. Tanti italiani ed europei, spesso, mi chiedono: che cos’hanno
gli americani che a noi manca? Come fanno a mettere su queste imprese
straordinarie? È un fatto culturale. Gli americani fanno business come gli
italiani fanno pranzo. È un’esperienza divertente, conviviale. Gli americani
parlano di affari anche per strada, coinvolgendo perfetti sconosciuti. È una
specie di sport collettivo. Come collettivo è il pranzo della domenica in
Italia. Un fatto di cultura, fra ricette, aneddoti, racconti, storia dei
piatti. Un regalo che viene condiviso, diciamo. A Silicon Valley provate a
entrare in un qualsiasi Starbucks, prendetevi un caffè – orribile, per quanto
mi riguarda – con un amico e iniziate a parlare di un’idea. Qualcuno,
sicuramente, si volterà e vi dirà: ma che meraviglia questa cosa, conoscete
Mark? Dovreste conoscerlo, impazzirebbe per una cosa così. Al che vi direte: e
chi diavolo è Mark? Le grandi imprese nascono in questo modo. Coinvolgendo più
persone. Un concetto, questo, che spero possa essere ripreso pure in Svizzera.
La Confederazione è molto avanti, va detto. Nel vostro Paese c’è precisione,
c’è solidarietà, c’è un facile accesso alle finanze. E c’è amore per le cose».
Chiudiamo
con una considerazione: perché in Europa abbiamo un altro concetto di
fallimento rispetto all’America? In America, spesso, fallire fa parte del
percorso, del processo di crescita. Qui, no. Possibile?
«Quarant’anni fa inventai una figura, quella dell’agevolatore di impresa.
Pagato da fondazioni, grandi società, ma anche Comuni e Regioni. Una figura volta
ad aiutare chiunque abbia un’idea imprenditoriale. Oggi, beh, lavoriamo in
questo modo in oltre 400 comunità sparse per il mondo. E abbiamo aiutato ad
avviare 55 mila imprese. È capitato spesso, a me o a un agevolatore, che in un
determinato contesto saltasse fuori quello che aveva avuto diverse idee
potenzialmente geniali ma in un modo o nell’altro non le aveva concretizzate. E
veniva dipinto, all’interno della comunità, come un fallito. E noi, in tutta
risposta, abbiamo sempre ribadito: quella persona non è mai arrivata in fondo
perché non c’eravamo noi. Perché non ha avuto il necessario accompagnamento.
Perché, come dicevamo prima, non ha beneficiato della triade. Puoi pure stare
in America, in un contesto che in un certo senso difende il fallimento o non
mortifica chi sbaglia, ma da solo non ce la farai mai. Mai. Agli italiani
ripeto sempre: chi era il primo commercialista di Enzo Ferrari? Sua madre.
Nessuno, tuttavia, ne ha mai parlato veramente. E questo perché è sempre stata
più vendibile l’immagine, mitologica, dell’imprenditore che sa fare tutto. Non
è vero. Non stiamo parlando di uomini straordinari. Ma di persone con un’intuizione».