L'intervista

«Fare l'antiquario è una lotta continua contro la tua passione»

Milo Miler, figlio d'arte, ha rilevato la Tipografia Elvetica di Capolago e confessa: «Separarsi da un mobile è la cosa più difficile»
© CdT / Chiara Zocchetti
Mauro Spignesi
16.03.2025 06:00

L'ultima mostra è a sorpresa. Nel senso che nell’invito non ci sono i nomi degli autori («La pittura silenziosa dei fratelli L.» è l’unico indizio svelato) che firmano le opere. E già da questa formula originale si capisce che Milo Miler non è un personaggio scontato. Vive con la moglie Julia Kessler (che ha lasciato il suo posto di giornalista in Germania) nella storica Tipografia Elvetica di Capolago che ha strappato alle ruspe trasformandola in casa e galleria d’arte, tra quadri, sculture e mobili Biedermeier. E qui, oltre la sua attività di antiquario, organizza mostre e conferenze, pubblica libri e ha tenuto in vita per un periodo anche una rivista. Appassionato di isole, le ha girate un po’ tutte: da Capri a Ponza, sino a quando è riuscito ad acquistare una casa a Stromboli, un buen retiro dove andare «quando sfuma l’assalto dei turisti».

La difficoltà nel vendere un mobile

Il destino di Milo Miler in parte era segnato. Anche i genitori erano antiquari, come quelli della moglie. E l’antiquario non è un mestiere qualsiasi, serve competenza, conoscenza, sensibilità, perché come ha raccontato nel suo divertente - e raro - libro Omelette soufflée à l’antiquaire. Elogio degli antiquari (Aragno editore) l’anglista, scrittore e critico d’arte Mario Praz, «è come un rabdomante, sente anche da lontano la presenza di un oggetto concupibile». Per Praz – che ha fatto un parallelo tra la scelta di mobili antichi e l’abilità nel cucinare una omelette a regola d’arte - ciò che si acquista o si colleziona viene da lontano e mantiene «la memoria del tempo trascorso».

Miler aggiunge altri particolari a questo discorso: «Il motto della nostra categoria è: vendi, guadagna e pentiti. Perché separarsi da un mobile è sempre una rinuncia, in fin dei conti la nostra missione è quella di ridare vita a un oggetto – e in questo c’è un aspetto ecologico - che ha una storia, che rappresenta un piccolo mondo, ha dettagli unici, ha un valore non solo economico, entra in conflitto con la cultura dell’usa e getta e della società dello spettacolo. In questo l’antiquario è diverso dal mercante che giudica un oggetto solo dal punto di vista del guadagno. Personalmente terrei tutto, o quasi, ma Julia ha portato nella mia vita una componente più razionale ed è andata a mettere equilibrio nella mia attività. Oggi ho 71 anni e lavoro ancora perché provo piacere».

I mercatini e l’inizio con la sorella

Anche se la strada di Miler era tracciata, lui è arrivato a occuparsi di mobili e opere d’arte quasi per caso. «Quando io e mia sorella Sonia – racconta - abbiamo cominciato questa avventura i nostri genitori ci hanno stretto la mano e fatto gli auguri. Stop. Il resto lo abbiamo fatto noi partendo da zero. All’inizio, era la fine degli anni Settanta, io ho cominciato vendendo libri, mentre mia sorella faceva i mercatini, in particolare quello di via Nassa dove da poco avevano vietato il traffico. Poi lei ha iniziato ad aver bisogno di aiuto e siamo partiti prima da un locale in piazza San Rocco e poi da un altro nel quartiere Maghetti: la ristrutturazione dell’intero complesso non era ancora partita e il proprietario lo aveva affittato con la promessa di lasciarlo una volta iniziati i lavori. Progressivamente ci siamo orientati sulle specializzazioni e abbiamo mantenuto una precisa coerenza negli anni». Nel 1994 è arrivata Julia, che poi si è occupata del restauro, e come Milo ha genitori che facevano gli antiquari, loro specializzati in arte inglese. «Lei da giovanissima andava all’alba nei mercatini di Londra e con la pila cercava un pezzo interessante».

Una ricerca continua

Quello che i Miler hanno tentato di fare negli anni è stato di rinnovare l’antiquariato. «La nostra filosofia è questa: ottima qualità ma molta varietà, anticipando le correnti grazie allo spostamento perpetuo alla ricerca del nuovo antico. Non per nulla siamo stati invitati quattro volte alla Biennale dell’Antiquariato di Firenze in rappresentanza del Novecento (questo negli anni Ottanta!). E abbiamo sempre proposto importanti ebanisti e designer «dimenticati» (come Carlo Bugatti, Emille Gallé, bronzi ed avorio, Bauhaus, Cinetici…). In questa ricerca abbiamo mantenuto una nostra coerenza nel tempo. E soprattutto siamo sempre stati legati al territorio, anche nei tempi migliori, quando ci dicevano di aprire un negozio in città importanti, abbiamo preferito concentrare i nostri sforzi qui».

L’acquisto della Tipografia Elvetica

Alla fine il lavoro di Miler e Kessler ha trovato anche un luogo dove sviluppare meglio l’attività. «Un giorno un amico che lavora nell’immobiliare mi propose l’acquisto della Tipografia Elvetica», un edificio carico di storia, dove agli inizi dell’800 c’era la stamperia clandestina dei patrioti del Risorgimento italiano. «Dissi di sì, pensando di ottenere uno spazio per i miei mobili (era praticamente abbandonato). Al primo tentativo non se ne fece niente, ci fu un’asta e la acquistò un privato. Poi l’edificio venne rimesso sul mercato. Al secondo tentativo riuscii a comprarlo. Chiamai Julia che era nella sua città, Amburgo, e le chiesi di venire a vedere. Lei inizialmente mi sconsigliò di investire qui tutti i miei risparmi, invece quando ripartì firmai». Era il 2008, sono serviti 5 anni per ristrutturarla, la coppia ha seguito i lavori e scelto i materiali, creato le nicchie e liberato pareti e soffitti per riportare la struttura alla sua dimensione originale, senza un architetto. Solo un ingegnere che ha calcolato i carichi del solaio. «Per le luci abbiamo chiesto aiuto a un amico che vive in Svizzera interna. Non abbiamo voluto spot, ma una luce onesta perché quando un cliente acquista per esempio un quadro e poi lo porta a casa e lo illumina con un faretto apprezza ancora di più la bellezza».

L’idea della casa editrice

La Tipografia è diventata anche casa editrice. «Il primo libro lo abbiamo pubblicato nel 2016», racconta Miler. Ma qui a Capolago è nata anche una rivista grazie all’incontro con un intellettuale controcorrente (straordinario scrittore, giornalista, autore di importanti trasmissioni televisive e radiofoniche, capace come pochi di raccontare la trasformazione della società) in vita sottovalutato e dopo la sua morte dimenticato: Tommaso Labranca. «Con Tommaso - racconta Milo Miler - ci incontrammo perché io lessi di un suo libro che mi aveva incuriosito. Ma non riuscivo a ordinarlo in libreria, la sua era una minuscola casa editrice. Trovai un numero di telefono, chiamai e mi rispose lui che si offrì, dicendo che ne avrebbe approfittato per fare una gita in Ticino, di portarmelo a casa». Da quell’incontro è nata una rivista, Tipografia Helvetica (è stato Labranca, scomparso nel 2016, ad aggiungere la H), durata 10 numeri. Miler parla con affetto di questa esperienza e ricorda «le riunioni della redazione che erano sempre stimolanti e si svolgevano sul divano di casa, tra un caffè e una fetta di torta preparata da Julia».

Per le mostre Miler e Kessler non hanno mai seguito le mode, i grandi nomi. «Ma solo la qualità. Abbiamo privilegiato artisti dimenticati, oppure sottovalutati, silenziosi e per questo meno appariscenti. Ci siamo sempre affidati all’intuito: se qualcosa ci piace, la compriamo». E poi la espongono. A proposito, alla fine è emerso il nome dei fratelli in mostra (aperta sino al 29 marzo) alla Tipografia: Albert e Guido Locca.

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