I «bulli» nelle chat di classe

Durante l’incontro di prevenzione alle scuole medie di Locarno 2 un’alunna è rimasta quasi sempre in silenzio. È stata attenta, ha partecipato alle attività di gruppo - molto divertenti - ma è intervenuta solo una volta. «Ho iniziato a usare Instagram a nove anni» si è lasciata sfuggire, a una domanda rivolta alla classe dalla formatrice Lara Zgraggen.
L’età minima per accedere ai social network è 13 anni, 16 per WhatsApp, ma queste e diverse altre informazioni fornite nel corso organizzato dalla Fondazione ASPI - ad esempio i rischi di una password troppo debole, o di condividere contenuti sensibili anche con un profilo «privato» - gli adolescenti sembrano scoprirle con sorpresa. Su 18 allievi di prima media solo sei alzano la mano, quando chiediamo chi non ha WhatsApp. Nove fanno parte di una chat di classe. Tre sono anche su Instagram e uno ha un canale YouTube dove parla di videogiochi (86 «seguaci»).
Sempre più connessi
Chiara, l’allieva silenziosa, è iscritta a cinque tra social network e app di messaggistica (WhatsApp, Instagram, Snapchat, Facebook e TikTok) su cui passa molto del suo tempo non scolastico. In classe - dove il natel deve rimanere rigorosamente spento - riconosce di essere «piuttosto timida». In compenso è molto estroversa nella sua vita social. I formatori della fondazione ASPI vengono chiamati nelle scuole ticinesi proprio per questo: tra gli strumenti digitali a disposizione dei giovani e la loro consapevolezza esiste spesso una grande sproporzione.
Lara Zgraggen, responsabile del progetto (nome in codice: e-www@i!) è accompagnata da un esperto della Swisscom che è partner dell’iniziativa. Prima della lezione hanno preparato l’aula legando le sedie con catene e lucchetti, sui tavoli hanno posizionato schede da decifrare come in una specie di «escape room». «L’attività dura tre ore e mezza e dobbiamo cercare di tenere accesa l’attenzione dei ragazzi con sempre nuovi stimoli» spiegano.
Nell’era di Tik Tok non è un’impresa facile. Gli allievi arrivano in prima media già abituati alle nuove tecnologie. Il programma dell’ASPI è partito nel 2009 e all’inizio era rivolto alle classi di quarta media: «Adesso cominciamo dalle quarte elementari» spiega Zgraggen. In quattordici anni - l’età di un adolescente - il mondo è cambiato velocemente e l’esposizione degli adolescenti come Chiara è molto aumentata, con tutti i rischi connessi.
Lo sdegno degli adolescenti
Appena entrati gli allievi sono stati divisi in quattro gruppi e fatti sedere sui banchi. «Buongiorno a tutti. Sono Lara e starò con voi tutta la mattina» esordisce Zgraggen. «Con me ci sono Christian, che ci darà un’importante consulenza tecnica, e un giornalista che vuole scrivere un articolo». La curiosità della classe è enorme, sulla lavagna digitale una serie di quiz li mette alla prova: quanti ragazzi tra 12 e 19 hanno il cellulare? quanti sono iscritti ad almeno un social network? Le risposte sono spesso sbagliate. I ragazzi tendono a sottostimare la diffusione dei social tra i coetanei, e spesso reagiscono con sdegno. «Alla nostra età ci sono tante cose più belle da fare, rispetto a stare su internet» dicono alcuni. «Secondo voi i ragazzi della vostra età sono sempre responsabili?» chiede la formatrice. La classe scuote la testa all’unisono.
Ma il quiz che sorprende di più la classe è un altro, e tocca il cuore più «sensibile» della lezione. Quanti giovani dichiarano di essere stati vittime di bullismo, secondo un’indagine PISA del 2019? Risposta: 1 su 10. «Se in questa classe siete una ventina, ci sono delle probabilità che alcuni di voi abbiano subito del bullismo» ipotizza Zgraggen. Effettivamente le testimonianze lo confermeranno. Non è una cosa insolita: capita che nei corsi tenuti dall’ASPI emergano esperienze di sofferenza, spiega la formatrice. A volte sono legate proprio alla dimensione digitale, ma non sempre.
Se i genitori si «scaldano»
«Ho visto un sacco di insulti e prese in giro nella chat di classe di una mia amica » racconta un’allieva. I compagni assicurano che nel loro gruppo «queste cose non succedono» e Zgraggen approva con aria seria. Nella sua carriera le sono capitati casi di allievi costretti a cambiare scuola dopo aver subito lunghe persecuzioni da parte dei compagni. La sua missione è fare in modo che cose simili non si ripetano. Senza arrivare a questi estremi, gli esempi del problema non sono lontani.
L’alter-ego di Chiara è un compagno irrefrenabile che alza la mano a ogni domanda. Sebastian non è iscritto ai social e non ha il telefonino - «i miei genitori me lo danno solo quando esco da solo» - ma anche lui è una potenziale vittima. Racconta che alle elementari veniva preso in giro proprio per la sua abitudine di intervenire in classe. «Mi avevano anche dato un nomignolo. Non mi piaceva per niente».
Suona l’intervallo. I ragazzi si riversano nei corridoi mentre nella sala insegnanti, davanti alla macchinetta del caffè, il direttore Patrick Dal Mas conferma che la gestione dei gruppi di WhatsApp è difficile. «Vietarli sarebbe inutile, si formano spontaneamente» spiega. La scuola ha un margine d’azione limitato. L’anno scorso la Polizia cantonale è intervenuta per una chat degenerata dagli insulti tra alcuni alunni a quelli tra i rispettivi genitori. Inutili i tentativi di mediazione: ne è nata una denuncia e quindi un procedimento penale.
Nessuna privacy
Tornati in classe la discussione riprende con esempi freschi. Proprio durante l’intervallo due allievi sono stati presi di mira da un «bullo» che è solito disturbarli. «Succede spesso» racconta Sebastian. Assieme a un compagno è stato «preso a calci» per due settimane dallo stesso ragazzo, più grande, che non ha smesso neanche dopo l’intervento degli insegnanti. Il consiglio di Zgraggen è di non rassegnarsi e non smettere di segnalare. «Anche il ruolo dei compagni che assistono a queste scene è importante» rimarca. Chi non interviene, ride e magari condivide un video dell’accaduto è complice dell’offesa.
A riprova in classe viene trasmesso un video che racconta una storia di sexting. I ragazzi lo discutono animatamente. Alla fine la conclusione - guidata da Zgraggen e Christian - è che tra mondo virtuale e mondo reale il confine è più sottile di quanto sembri. «Quello che fate sui social è come se lo faceste in pubblico» chiosa l’insegnante di scienze, rimasto in disparte fino all’ultimo. Chissà che anche Chiara, dal suo angolo silenzioso, abbia imparato la lezione.