I sogni svaniti dell'Eritrea con il regime di Isaias

Sopra Asmara quella sera del dicembre 1993 il cielo era terso, e Isaias Afewerki – allora a capo di un governo provvisorio - aveva indicato la grande piazza del mercato, dove non distanti l’una dall’altra ci sono la cattedrale cattolica, quella copta e la moschea. «Ogni giorno faccio il giro delle tre chiese, qualche Dio mi aiuterà», aveva detto sorridendo. Nessuno, allora, avrebbe mai pensato che quest’uomo, il leader che aveva condotto l’Eritrea all’indipendenza (maggio 1991) dopo una guerra contro l’Etiopia che si era lasciata dietro 150 mila morti, sarebbe diventato un dittatore. Per tutti dopo l’indipendenza era un eroe, tutti credevano nel suo sogno di trasformare questo Paese nella Svizzera del Corno d’Africa. D’altronde Afewerki con il suo Fronte di liberazione era riuscito a mettere d’accordo le nove comunità che compongono l’ex colonia italiana, gente che parla lingue diverse, ha religioni differenti, stili di vita e culture lontanissime tra loro. Un piccolo, grande miracolo. È importante questo passaggio per capire come mai dall’Eritrea si fugge, si cerca un futuro lontano da una dittatura dove non esistono elezioni libere né diritti umani, una costituzione democratrica, un ordinamento giudiziario. Come si è arrivati a questo? Perché Afewerki negli anni ha fatto emergere il suo carattere militare?
Eppure in quei mesi dopo la liberazione in Eritrea si respirava un’aria nuova. Il simbolo di questa «primavera africana» era la ripartenza, dopo 30 anni di abbandono, della linea ferroviaria tra la capitale Asmara, situata sull’altopiano a 2.394 metri, sino al mare di Massaua. In tutto 114 chilometri, con locomotive Ansaldo e Breda portate qui dagli italiani nel 1935 e rimesse a nuovo da un gruppo di anziani ex ferrovieri. Quel treno simbolicamente doveva trainare il futuro dell’Eritrea.
Allora la speranza di un Paese diverso aveva convinto tanti che avevano studiato o fatto fortuna all’estero a tornare a casa. Molti imprenditori europei erano rimasti affascinati atterrando ad Asmara (era stato riaperto l’aeroporto) da una città dove il tempo si era fermato e c’era un’atmosfera da Italia negli anni ‘30, con il corso zeppo di gente, il Cinema Impero, il Ristorante San Giorgio, il Bar Vittoria dove servivano un ottimo cappuccino o si poteva bere la Birra Melotti; poi, le ville Art déco, i simboli di un periodo d’oro come l’autostazione Fiat Tagliero con la sua architettura futurista.
Tutto questo oggi non c’è più, o quasi. L’uomo che confidenzialmente tutti chiamavano Isaias, sulla soglia degli ottant’anni viene definito dall’Economist il Kim Jong-Un africano che ha riaperto la ferita con l’Etiopia, ha stretto (la più celebre con Putin) e distrutto alleanze in Africa e in Occidente, ha eliminato chi negli anni gli ha fatto ombra, ha chiuso le scuole estere e religiose, ha costretto tutti i giovani a fare il militare senza precisare la fine della ferma, ha zittito qualsiasi forma di opposizione e protesta. Ha portato il Paese alla fame e all’isolamento, lo ha spaccato. Oggi cerca di controllare i flussi di emigrazione appliccando la Diaspora tax, un balzello del 2 % sul reddito che deve pagare chi vive all’estero. Chi non paga (gli uffici diplomatici inviano le fatture) rischia ritorsioni ai familiari in patria visto che tanti emigrati sono spie del governo ed è anche per questo che ci sono stati gli scontri tra eritrei in Europa.cittadina.