I turisti dell'astinenza

Quando Rose è entrata per la prima volta all’albergo Pestalozzi ha fatto un «casino». Per prima cosa ha ordinato da bere - un litro di rosso - e al rifiuto del cameriere si è messa a urlare. «Ero fuori di me, una mia amica ha dovuto portarmi fuori prima che rovinassi il locale» ricorda. È uscita sbattendo la porta e giurando che «mai e poi mai» avrebbe rimesso piede in quel posto.
Ironia della sorte: trent’anni dopo Rose è seduta in una saletta al primo piano dell’albergo, davanti a dei cioccolatini. È una signora sulla settantina, pacata, elegante e molto gentile. Non si direbbe più un’alcolista: eppure è convinta che frequenterà il Pestalozzi fino alla fine dei suoi giorni. «Assurdo, vero?» dice ridendo.
L’albergo-ristorante nel centro di Lugano dal 1914 al 2014 si è rifiutato di servire alcolici alla clientela. Negli anni Settanta è diventato uno dei primi esercizi pubblici in Ticino ad ospitare sedute degli alcolisti anonimi, che continuano a tenervisi due volte a settimana, ancora oggi. Il divieto di vendere alcolici invece è venuto meno: ma a Rose e agli altri alcolisti che partecipano alle sedute non dà fastidio. «Siamo noi ad avere un problema con l’alcol» dice la 69enne. «Non pretendiamo che lo sia anche per gli altri».
Rose
In Ticino esistono sei gruppi di alcolisti anonimi (erano sette, quello di Arbedo ha chiuso durante la pandemia) e tre di questi si riuniscono all’albergo Pestalozzi. La storia dell’hotel è legata a doppio filo con la lotta all’alcolismo: fu aperto nel 1914 da un gruppo di soci, tra cui lo scrittore Niklaus Bolt, toccati da vicino dalla piaga dell’alcol dilagante a cavallo della Prima Guerra Mondiale. Decisero, fin da subito, che il ristorante sarebbe stato «analcolico».
Non è una storia molto conosciuta, nemmeno ai luganesi - e di sicuro non la conosceva Rose. È nata in Brasile da una famiglia benestante, è cresciuta in Francia e ha fatto le scuole americane. Quando è arrivata in Svizzera per lavorare nella finanza, non si curava dell’alcolismo - che la affligge dall’età di 13 anni - e l’«incidente» al Pestalozzi è stato uno dei tanti, prima della consapevolezza.
«All’epoca cercavo solo posti dove bere, uno valeva l’altro. Diventavo irascibile, potevo anche alzare le mani» racconta mentre prepara la saletta per l’incontro del giovedì. «Il fatto di stare bene economicamente non aiutava: non vedevo il problema». Riempie una caraffa d’acqua, con delicatezza dispone dei volantini su un grande tavolo. Poi apre la porta a un uomo sulla sessantina in calzoncini, Pc sotto braccio e orologio d’oro al polso, che saluta sorridente.
Alan
Essere benestanti non è un antidoto né una medicina. «La nostra è una malattia molto democratica» assicura Alan. Nella comunità degli «expat» di Lugano l’alcolismo è diffuso come nel resto della società: dal 2012 esiste un gruppo di alcolisti in inglese - fondato da Rose assieme a una donna americana e a una danese - che si riunisce due volte a settimana e arriva ad avere anche 12-13 membri, nei momenti di punta.
Oggi sono quattro, oltre a Rose e Alan - che è anglo-messicano - arrivano anche un russo e un americano. «L’esigenza di un gruppo in lingua inglese è sentita da molti» spiega Alan mentre apre il computer sul tavolo e si collega in video-conferenza con altri «amici» sparsi per il mondo. Le riunioni anglofone al Pestalozzi sono aperte anche a turisti e visitatori di passaggio, soprattutto d’estate. «Ne arrivano anche da Como - rivela Rose - perché là non c’è un gruppo in inglese».
Ai non-alcolisti potrebbe sembrare strano un bisogno così assiduo: persino in vacanza? Ma dalla prospettiva di Alan, che ha 63 anni e non tocca un bicchiere da 12 - quando il medico gli consigliò di «fare pure testamento» - perdere anche solo una riunione rappresenta un rischio mortale. «Nessuno può capire cosa significa, se non chi lo ha vissuto» garantisce. «Per questo confrontarci e supportarci tra di noi è così vitale».
Carmen
Nella saletta inizia la seduta - i non-alcolisti devono uscire - e per capire meglio cosa vuole dire Alan ci spostiamo in un bar dall’altra parte del Ticino, a Sementina. Qui ci aspettano tre persone sedute davanti ad altrettanti bicchieri d’acqua.
«Quando vado in vacanza, la prima cosa che faccio è verificare che ci siano dei gruppi disponibili nella località prescelta» racconta Carmen, 55 anni, che viene da Locarno. Ha smesso di bere 10 anni fa, e cominciato quando ne aveva 13. «Le mie amiche dopo la prima sbronza stavano male, io invece ho continuato per una vita» spiega. Il taglio è arrivato dopo l’ennesimo ricovero in una clinica a Lugano - nel frattempo aveva perso il lavoro, il marito e un figlio, toltole dalla Commissione Tutoria.
«Avevo paura di tornare a casa e ricadere nel baratro» racconta. «Ho trovato per caso un libro sul mutuo-aiuto e ho deciso di provare. Il supporto degli altri e il confronto costante mi hanno salvato la vita». Oggi Carmen è tornata a lavorare e ad avere rapporti con il figlio, che l’ha perdonata.
Fausto
Eppure Carmen è ancora un’alcolista, come pure l’uomo seduto di fianco a lei. È nonno ormai - 63 anni - e parla con dolcezza dei nipotini. Non tocca alcolici da 15 anni: il problema è che prima è stato «sbronzo» per gran parte della vita. «Iniziavo la mattina e finivo la sera, lo sapevano tutti ma continuavo a negarlo» ricorda Fausto. Anche lui ha iniziato da giovanissimo ed era convinto di avere il «vizio» («ul vìzi» in dialetto) del bere: «Solo dal confronto con gli altri ho capito che la mia è una malattia» spiega. «L’ho sempre avuta e ce l’ho ancora adesso».
La battaglia si vince giorno per giorno: anche oggi Fausto è riuscito a non bere. «Questa settimana sono stato bene, ma non per questo posso abbassare la guardia» afferma. Ha dato la disponibilità per il picchetto telefonico (091 923 92 83) a cui può rivolgersi chi ha problemi di alcol 24 ore su 24, tutto l’anno. «Per me è un modo di rimanere in allerta» confida Fausto. Ricevere telefonate da persone in difficoltà lo aiuta a vigilare anche su se stesso.
Giovanni
Il picchetto telefonico degli alcolisti è gestito da quattro volontari con rotazione trimestrale. Tra loro c’è anche Giovanni, 70 anni, imprenditore in pensione della Mesolcina. Nel suo bicchiere c’è acqua dal 1989, quando una mattina decise di non andare a bere e chiamare invece lo stesso numero a cui adesso risponde lui.
«È stata una frazione di secondo, era un periodo in cui avevo toccato il fondo» racconta Giovanni. «Non so dire ancora oggi cosa mi ha dato la forza di fare quel passo». Sa benissimo, però, cosa gli ha permesso di rimanere sobrio fin da allora: il fatto di avere affrontato la malattia assieme ad altre persone. «Da soli non potremmo mai sconfiggere l’alcolismo. Aiutandoci a vicenda, invece, le possibilità aumentano». Non è una vittoria facile. Può capitare che un compagno di viaggio, d’un tratto, non si presenti più alle sedute. Gli altri alcolisti non conoscono il motivo - non conoscono nemmeno le rispettive identità (usano nomi di fantasia, come anche in questo articolo). Quello che possono fare è continuare la propria astinenza, nella convinzione che nessuno può salvare se non se stesso. Un giorno dopo l’altro, verso l’obiettivo.