L'analisi

Il complicato (e logoro) sistema americano

Come funzionano le elezioni negli USA e quali numeri guardare per capire chi vincerà
© Keystone
Elisa Volpi
13.10.2024 06:00

Il numero magico per vincere è 270: i grandi elettori che Kamala Harris o Donald Trump dovranno conquistare per ottenere la presidenza. L’elezione del Presidente statunitense è regolata da un sistema inventato nel 1787 e che da tempo mostra inadeguatezze. La votazione non è propriamente diretta, ma si svolge in due step. Il 5 novembre i cittadini sceglieranno i cosiddetti «grandi elettori», cioè i rappresentanti che voteranno formalmente per il presidente a dicembre. I grandi elettori sono in tutto 538, cioè la somma dei deputati al Congresso (435), Senatori (100) e i tre rappresentanti per il Distretto di Columbia, la capitale. Vince chi ottiene la metà più uno dei grandi elettori, cioè 270.

I 538 grandi elettori sono assegnati a livello statale, nel rispetto del principio del federalismo. Ogni stato ha 2 senatori, mentre i 435 deputati vengono distribuiti in base alla popolazione. Si va dai 54 elettori della California, ai 42 del Texas e ai 30 della Florida, fino al minimo garantito di 3 degli stati meno popolosi come Alaska o Vermont. Avviene così che gli stati più piccoli diventino più influenti: il numero di abitanti per ogni grande elettore è infatti più basso nei piccoli stati rispetto ai grandi. Ad esempio, ogni grande elettore in Alaska rappresenta meno di 200.000 abitanti, contro i 700.000 della California. Questo squilibrio è aggravato dal fatto che il numero di 435 deputati, fissato nel 1929, non è mai stato aggiornato nonostante la popolazione degli USA sia cresciuta da 116 a oltre 334 milioni. Questo crea una distorsione della rappresentanza, poiché gli stati più popolosi non hanno visto aumentare proporzionalmente i loro grandi elettori.

Questo problema è ulteriormente accentuato dal principio del «Winner-Takes-All», chi vince prende tutto. Con l’eccezione di Nebraska e Maine, infatti il candidato che ottiene più voti in uno stato ne prende tutti i grandi elettori. Accade quindi che i candidati si concentrino sugli stati meno popolosi e politicamente incerti (i cosiddetti «Swing States», come Nevada o Iowa) perché possono determinare chi sarà il futuro presidente. Questo è un potere che gli stati più popolosi, ma con schieramenti definiti come California, Texas o New York, non hanno, soprattutto in competizioni testa a testa come si preannuncia quella di quest’anno.

Di conseguenza, la corsa presidenziale non si gioca a livello nazionale, ma in 50 competizioni separate. Questo meccanismo può portare a situazioni in cui un candidato ottiene più voti a livello federale, ma senza superare la soglia di 270 grandi elettori. Questo è quello che è accaduto sia nel 2000, quando Al Gore perse contro George W. Bush ma vinse il voto popolare, sia nel 2016 quando Hillary Clinton prese quasi 3 milioni di voti più di Donald Trump.

Non dovrebbe allora sorprendere che sempre più cittadini siano scontenti del sistema elettorale, considerato iniquo e poco rappresentativo della volontà popolare. E non hanno tutti i torti dato che i Padri Fondatori optarono per questo metodo proprio perché erano scettici verso la democrazia diretta. Ma con ogni elezione controversa cresce la pressione per una riforma: il dibattito sul passaggio a un sistema di voto popolare diretto potrebbe presto diventare una sfida cruciale per la democrazia americana.

Elisa Volpi è docente associata di Scienze Politiche alla Franklin University Switzerland di Lugano